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sabato 6 maggio 2017

Macron-Le Pen: note sull'importanza di una linea astensionista. Il rifiuto ragionato di un menopeggismo ossessivo per l'autonomia di un'alternativa socialista al neo-liberalismo





Premessa: il menopeggismo non è un valore o un disvalore assoluto


Ci sono circostanze, nella vita come in politica, in cui optare per il meno peggio è non solo opportuno, ma persino imprescindibile. Il purismo di chi rifiuta sempre e comunque il "menopeggismo" come opzione si trasforma facilmente in settarismo e come tale va bandito. Sovente siamo chiamati a scegliere tra opzioni niente affatto ideali in cui è però evidente la gerarchia del meno-peggio, vuoi perché il peggio apporta pericoli di seria gravità, vuoi perché il meno-peggio può rappresentare tutto sommato un accettabile compromesso o persino un modesto passaggio migliorativo.
Il problema sorge però quando il menopeggismo diventa un'attitudine preconcetta o persino irrazionale, una sorta di istinto, di riflesso condizionato e compulsivo. In questo caso si finisce per dare ad ogni scelta, anche quando prudenza e riflessione suggerirebbero il contrario, il valore assoluto dell'urgenza e dell'aut-aut, perdendo la preziosissima possibilità di non schierarsi considerando i due mali non degni di essere preferiti l'uno all'altro e lavorando alacremente per rafforzare la vera alternativa ai due mali.



L'attitudine del menopeggismo compulsivo può sorgere per due diversi motivi: nel migliore dei casi per una pura ossessione verso "il doversi schierare ad ogni costo" anche se le differenze tra due mali sono impercettibili in termini qualitativi e il trionfo dell'uno sull'altro non modifica in modo significativo la realtà. Questo è un errore molto comune nei paesi a sistema maggioritario o con forte correzione maggioritaria (come nei sistemi a doppio turno), indotto da una struttura dei sistemi elettorali che in fin dei conti pone sempre delle alternative aut-aut.
Tuttavia molto spesso il menopeggismo si nutre di vere e proprie false convinzioni necessarie del resto per dare allo scontro politico una parvenza di effettività anche quando è assente. E così alle due opzioni in ballo si attribuiscono caratteristiche deformate, spesso e volentieri grazie al lavoro instancabile della propaganda mediatica e alla manipolazione delle idee, dei simboli e dei contesti.
Nelle riflessioni che seguono mi rivolgo quindi in primo luogo a chi si trova e si è trovato in passato nella frequentissima e scomodissima situazione (oggi in Francia, domani chissà nuovamente in Italia) di essere indotto quasi suo malgrado a scegliere un supposto meno peggio poiché convinto, falsamente, per un'errata lettura della realtà, che si tratti davvero di un meno peggio oppure che la situazione concreta richieda urgentemente di optare ad ogni costo per un meno peggio.
Coerente è invece la posizione di coloro che, ben informati sulle caratteristiche delle due alternative, ritengono davvero migliore o sensibilmente meno peggiore una delle due. In tal caso la discussione si sposta sul piano della schietta lotta delle idee.


I contenuti dello scontro politico nel secondo turno francese

Il ballottaggio delle presidenziali francesi tra il candidato del movimento politico En Marche Emmanuel Macron e la candidata del Front National Marine Le Pen è un esempio eclatante di alto rischio di menopeggismo e chiamata a fronti uniti in chiave emergenziale. La benemerita scelta di Melenchon di non esprimere un orientamento univoco (purtroppo non seguita dal Partito comunista francese) potrebbe rappresentare un momento di svolta epocale nella capacità di assunzione di un punto di vista autonomo delle forze socialiste-comuniste, anti-capitaliste o persino semplicemente social-democratiche dopo trent'anni di subordinazione psicologica e pratica al liberalismo e al neo-liberalismo.

Va premesso che, diversamente da altre circostanze di scelta binaria, il ballottaggio francese è particolarmente interessante poiché pone realmente due alternative dai contenuti moderatamente diversi (anche se molto meno diversi da ciò che appare), cosa che invece non avviene in moltissimi altri casi di elezioni in sistemi maggioritari in cui si confrontano opzioni quasi del tutto sovrapponibili e lo scontro è pressoché integralmente simulato e basato su elementi secondari o emotivi.
Sia chiaro, tuttavia, che la diversità di contenuti non implica affatto la possibilità o la necessità di optare per un reale meno peggio. Due alternative possono essere infatti diverse ma giudicate entrambe cattive e pericolose allo stesso grado seppur con modalità differenti. 

E' giunto quindi il momento di entrare nel merito della contesa. Premetto che le osservazioni che seguono si basano su una lunga e meditata ricerca sui programmi, i posizionamenti e la storia passata e recente dei partiti e dei personaggi implicati. Tuttavia data la delicatezza di alcune possibili derive sono prontissimo a ricredermi di fronte ad evidenze contrarie a quanto sosterrò e sarei ben felice di avviare un dibattito anche con chi conosce meglio di me e da più vicino l'attuale realtà francese. 

Le considerazioni che seguono peraltro vanno ben oltre la contingenza della tornata elettorale e trascendono, se estese dal loro significato particolare, il caso francese, tenuto conto che negli anni a venire è molto probabile che lo scontro tra "populismo" di destra e establishment neo-liberale proseguirà molto a lungo. E' bene dunque cercare di capire qual è davvero la posta in gioco e quale può essere il posizionamento più intelligente e costruttivo di una forza sociale anticapitalista.


 Il neo-liberalismo estremistico di Macron

Emmanuel Macron è l'emblema dell'ultra-liberalismo, un'estremista di centro, dove per centro va inteso, nella dialettica politica contemporanea europea, non certo il moderatismo politico ma quel perdurante centro gravitazionale attorno a cui si sono costruite le politiche economiche e sociali degli ultimi 30 anni: ovvero l'orientamento a favore del libero mercato, della libera concorrenza e della libera impresa in contrasto con ogni forma di protezione dell'economia nazionale, del lavoro e dello Stato sociale. Ovvero un orientamento tutt'altro che moderato.

Macron proviene da una folgorante carriera che da brillante studente ENA lo ha visto ascendere nei ranghi del partito socialista, di cui ha sempre costituito l'"ala destra" di orientamento liberale e liberista. Ministro dell'economia del governo Hollande dal 2014 al 2016 ha promosso riforme pro-mercato di carattere liberale, dalla liberalizzazione delle libere professioni all'estensione del lavoro domenicale ed ha difeso ad oltranza la Loi Travail (El Kohmri) che per lunghi mesi ha drammaticamente diviso il paese con scioperi strenui da parte dei lavoratori. Nel merito di quest'ultima legge, ha apertamente sostenuto un suo ulteriore approfondimento con l'estensione di ambiti più vasti alla contrattazione a livello aziendale (ovvero depotenziamento drastico degli effetti della contrattazione collettiva nazionale): "Oui, il faudra élargir le champ de la négociation collective au niveau de l'entreprise à d'autres domaines... Pour les salaires, il faut privilégier des négociations salariales au plus proche de la situation de l'entreprise". Un orientamento chiarissimo a favore dello smantellamento di ogni regolazione generale del lavoro in uno dei paesi europei in cui ancora la sensibilità per una qualche protezione del lavoro salariato rimane rilevante. Il candidato di En Marche, a conferma di questo orientamento, ha apertamente difeso i meccanismi di concorrenza sleale sul costo del lavoro vigenti nel mercato unico europeo, come ad esempio il clamoroso caso dei lavoratori distaccati all'estero.




Macron del resto è un ultra-europeista, fautore di un approfondimento dell'Unione europea con l'ulteriore devoluzione di poteri verso l'UE all'interno della cornice degli attuali trattati. Tra tutti i candidati alla presidenza è stato in assoluto il meno critico (direi il più entusiasta) nei confronti dei trattati europei che dalla metà degli anni '80 hanno imposto un ristretto e cogente paradigma di gestione della politica economica: liberista e di austerità. Nel suo programma è esplicitamente enunciata la necessità del conseguimento del pareggio di bilancio entro il 2022 (-0,5% del rapporto deficit PIL entro quella data). 
Occorre qui precisare ciò che per molti è divenuto chiaro, ma per tanti altri ancora risulta offuscato da una fumosa cortina ideologica. Lo scontro pro-UE o anti-UE non rappresenta in alcun modo in sé per sé uno scontro tra chiusura e apertura, tra nazionalismo e internazionalismo, tra particolarismo e universalismo. L'UE non è l'Europa come entità composita di popoli, né l'Europa come entità geografica, né l'Europa come spazio culturale dotato di proprie radici e tratti in comune, né tanto meno un esempio di integrazione politica e solidale tra popoli. L'UE oggi è un insieme di trattati liberisti creati ad hoc per restringere all'estremo lo spazio di libertà della politica economica e dare luogo ad un vincolo esterno di tipo tecnico cogente e indiscutibile, estraneo alla dialettica delle idee espressa dalla democrazia rappresentativa. E' un esperimento di ingegneria sociale post-democratico che ha assolto, dagli anni '80 in poi, al compito storico di far scomparire poco a poco lo spazio concreto della dialettica storica del conflitto di classe, del conflitto distributivo e del conflitto delle idee sul genere di società che si ritiene migliore. Ed è infine, nel concreto, lo spazio di esercizio dell'egemonia tedesca sul resto dei paesi, Francia inclusa (sebbene da una posizione meno subalterna degli altri). Accettare entusiasticamente la cornice dei trattati UE, per giunta senza nemmeno discuterne i dettagli quanto meno con parole di circostanza, (perché nei fatti, come noto, i trattati sono indiscutibili e immodificabili se non all'unanimità dai 27 paesi) non significa essere paladini dell'Europa e degli europei, ma di tale modello post-democratico e tecnocratico in consolidamento e delle politiche economiche che ci hanno portato al disastro sociale attuale.
Il fatto che Macron abbia cercato a tratti, ad esempio nel caso del trattamento della Grecia, di stemperare le pretese tedesche di applicazione dell'austerità (cavillo cui si è appellato Varoufakis per sotenere il voto utile a Macron), non rappresenta nient'altro che un timido tentativo di costruire un'Europa liberista dall'austerità meno estrema, sfumando l'impostazione allucinata e direi persino suicida promossa dai falchi tedeschi. Non si tratta in alcun modo di una rimessa in discussione dell'Europa di Maastricht e della libera circolazione dei capitali di cui Macron è entusiasta apologeta, ma solo una sua variante più realistica e sicuramente più ben voluta dagli Stati Uniti in chiave egemonica antitedesca (in questo Macron somiglia tantissimo a Renzi). 

Ed a proposito di Stati Uniti, ecco l'ultimo tassello del puzzle: Macron è un entusiasta filo-statunitense in pieno contrasto con la tradizione gaullista francese, del resto sepolta da anni già da Sarkozy e Hollande. Membro dell'associazione di amicizia franco-americana, non ha mai nascosto le sue decise simpatie atlantiste e la sua diffidenza nei confronti della Russia, avendo avuto in più occasioni modo di rimproverare l'eccessiva vicinanza alla Russia dei candidati Le Pen, Fillon e Melanchon. In coerenza con l'orientamento filo-statunitense, Macron si è dichiarato favorevole ad un intervento militare in Siria dopo il presunto attacco con armi chimiche di Assad della primavera 2017. Macron sembrerebbe quindi proseguire, accentuandone la forza, l'orientamento atlantista francese che si è consolidato dopo la fine della presidenza di Chirac a tutto detrimento di buone relazioni con la Russia, orientamento che, rafforzato dai regurgiti neo-coloniali francesi ha favorito negli ultimi anni sciagurate e criminali scelte come la guerra in Libia voluta da Sarkozy che, sfruttando le ataviche contraddizioni sociali ed etniche libiche, ha fatto a pezzi un florido paese riducendolo a terra di scorrerie di bande sanguinose in perpetua lotta di egemonia, favorendo il rafforzamento dell'islamismo radicale (analogamente a quanto avvenuto con la destabilizzazione della Siria di Assad promossa anch'essa da francesi britannici e statunitensi che hanno sostenuto il terrorismo dei gruppi islamisti per minare la stabilità del paese).

Insomma Macron è il candidato perfetto del presente, delle tendenze in atto che stanno conducendo la Francia, così come l'Italia e la gran parte dell'Europa alla rovina. 


Macron come simbolo di un passaggio politico-culturale epocale

La figura di Macron è poi estremamente interessante da un punto di vista ideologico e sociologico. Vale la pena aprire una piccola parentesi sull'evoluzione politico-culturale che una figura come Macron rappresenta in modo perfetto.
Ideologicamente è il candidato del superamento della dicotomia destra-sinistra da centro, in favore di un liberalismo progressista spesso chiamato liberalismo sociale, in verità del tutto post-sociale nei termini concreti, che sacrifica alle necessità del profitto e della concorrenza ogni regolamentazione, diritto e solidarismo strutturale.
Macron, come Renzi in Italia del resto, è l'evidenza del tentativo di creazione di un blocco sociale post-ideologico, praticista, nuovista, affascinato dal "fare" come valore in sé, e dal "nuovo" come rottamazione del vecchio, quintessenza della vacuità politica. E' il risultato della rottamazione di una classe politica che anziché decadere (e decadere giustamente) per lasciare spazio al meglio, lascia spazio invece al peggio. Una classe politica neo-liberale già alacremente al lavoro per sovvertire l'ordine social-democratico novecentesco, che ad un certo punto è stata giudicata persino troppo lenta nella propria propensione riformatrice in senso liberista. E così la fine del bipolarismo simulato e truffaldino dà luogo ad un superamento in peggio verso orizzonti ancor più monolitici.
L'evoluzione italiana è stata in questo senso similissima. Dapprima la chiusura a tenaglia per venti anni in un bipolarismo del tutto alieno alla cultura politica stratificata del trentennio post-bellico. Due partiti o blocchi di forze grosso modo allineati nelle scelte di politica economica fondamentali, ma in contrapposizione su temi secondari. Questo schema, che ha funzionato assai bene per una quindicina di anni per realizzare la grande riforma neo-liberista dei rapporti Stato-mercato, è apparso a tratti troppo poco oliato, non più adatto all'accelerazione improvvisa dettata dagli ultimi anni di austerità. Ed è così che i Berlusconi, Prodi, Chirac e persino Hollande o Fillon non sono più apparsi sufficientemente in linea con i nuovi diktat della globalizzazione capitalistica. Ed ecco spuntare la generazione dei rottamatori, cui chissà potrà seguire un domani una nuova generazione di rottamatori dei rottamatori se i precedenti non si rileveranno sufficiente al passo con i tempi (ricordiamoci degli attacchi subiti a più riprese dallo stesso Renzi in Italia da parte degli stessi poteri che lo hanno portato al trionfo).
Ideologicamente questa recente evoluzione ha prodotto uno straordinario avanzamento in direzione della civiltà post-ideologica incapace di pensare ad un mondo alternativo alla legge del mercato e del profitto. I residui grotteschi della destra e della sinistra politiche del ventennio 1992-2011 e la loro contrapposizione ideologica manipolata, anziché essere superati da un rilancio popolare di istanze sociali fondate su contenuti effettivi e sulla proposizione di alternative concrete all'esistente, viene sì superato, ma in nome di un centro sistemico ultra-liberale nei costumi e in economia. Un centro proclamato dal giovane Macron così come dal giovane Renzi né di destra né di sinistra, aperto così ad una vasta gamma di potenziali elettori trascinati dall'ideologia della concretezza, del "fare" e dell'"innovare" e dal mito dell'ineluttabilità della globalizzazione e del cosiddetto "progresso" (mai qualificato nei suoi contenuti). 

Macron, come Renzi, come fu Blair nel Regno Unito, ma anche figure come Zapatero in Spagna sono stati e sono oggi gli epigoni e i narratori dell'emersione di nuove dicotomie definite decisive per il posizionamento delle idee e degli elettorati: da un lato il mondo dei progressisti, sostenitori di una società aperta, multiculturale, dinamica e innovatrice e dall'altro il mondo dei conservatori sostenitori di una società chiusa, ostile al multiculturalismo, statica e a tratti razzista. 
Il lavoro di demolizione ideologica delle vere categorie distintive del resto era stato avviato a tappe forzate in tutti i paesi europei dagli anni '90 in poi. L'adesione al liberalismo della sinistra e della destra post-fascista doveva far sparire dallo schema di orientamento ideale lo scontro più importante e fondante: quello tra solidarismo socialista e individualismo liberale e il conflitto di classe i due perni cruciali ideali e materiali del capitalismo.
Il modo più efficace con cui è avvenuto questo sapiente occultamento delle contraddizioni effettive, si è quindi articolato in due fasi: dapprima lo scontro simulato tra una destra (liberale) e una sinistra (liberale) entrambe allineate sui fondamentali del neo-liberalismo politico, culturale, etico ed economico ma in scontro ideologico su temi extra-economici. Poi da alcuni anni, la battaglia definitiva per una mutazione culturale dell'Europa ha conosciuto un passo ulteriore e si sta estendendo addirittura allo schiacciamento dell'ultima protesi ideologica residua, ovvero la stessa osannata dicotomia destra-sinistra, del tutto fittizia e falsa nel suo sviluppo storico recente, ma ancora in qualche modo produttrice di identità in grado di richiamarsi tenuamente al novecento, quel secolo della politica che il neo-liberalismo sta cercando in tutti i modi di cancellare dalla memoria collettiva. 



Ed ecco che si spiega facilmente l'attacco alla destra e alla sinistra e la pretesa trasversalità di figure come Macron che si collocano soggettivamente (e non più solo oggettivamente come prima) oltre la dicotomia. 
Naturalmente volendone dare una lettura nei puri termini del conflitto di classe tra classi dominanti e classi subalterne, è evidente che tale fuoriuscita dalla dicotomia destra e sinistra di un Macron o di un Renzi è in realtà è uno schiettissimo posizionamento a destra, non nel senso lepenista-fascista-leghista, ma nel senso più generale di attacco senza quaertiere ai subalterni in favore dei dominanti. In tal senso tutti i Macron, Renzi, Blair, Sarkozy, Hollande, Merkel, Zapatero, Berlusconi, Prodi, Schroedere e Merkel sarebbero, chi più chi meno, tutti collocabili all'estrema destra delle opzioni politiche, in quanto fautori del libero sfruttamento del lavoro, dell'aumento delle disugugalianze e della dissoluzione della società.
Siccome tuttavia i termini destra e sinistra vengono spesso caricati anche di altre importanti sfumature di costume e culturali o interpretati su linee di demarcazione completamente diverse da quella del conflitto di classe e della distribuzione del reddito, una buona alternativa per non essere fraintesi è passare dall'uso di termini ad alto grado di manipolazione contenutistica a termini più immediatamente sostanziali meno manipolabili. 
Sarà quindi sufficiente ricordare che Macron è un convintissimo neo-liberale e neo-liberista, favorevole all'estensione del mercato contro lo Stato, alla deregolamentazione del diritto del lavoro, alla libera circolazione di merci, capitali e mano d'opera, fautore delle politiche europee e dunque del paradigma dell'austerità più o meno estrema o sfumata, del pareggio di bilancio e del taglio della spesa pubblica. Favorevole ad un intervento armato in Siria,  sostenitore del governo anti-russo ucraino infarcito di neo-nazisti, schierato al fianco di Israele in politica estera.
Una volta comprese le sue posizioni, il suo autocollocamento sogettivo a destra, a sinistra o oltre la destra e la sinistra, con la conservazione o con il progresso diventa del tutto irrilevante. Si tratta di elementi di costume che incidono sulla propaganda e non sui contenuti. Questi ultimi così come quelli dei suoi colleghi omologhi di altri paesi, sono sufficientemente chiari per tracciare delle distinzioni sostanziali oltre le autodichiarazioni propagandistiche destinate a creare un blocco sociale di consenso.


Lo sciovinismo nazionalistico a venature sociali di Marine Le Pen e del FN

E ora veniamo a Marine Le Pen. Leader del Front National dal 2011, dopo la lunghissima presidenza (1972-2011) del padre Jean Marie Le Pen. Il Front National nasce nel 1972 come partito di estrema destra connotato da un programma economico per lo più antistatalista, di protesta fiscale, vicino agli ambienti della piccola e media imprenditoria, europeista e insieme nazionalista e per lo più xenofobo. La sua nascita fu il risultato del raggruppamento di diversi gruppi di destra di tradizione monarchica, e petenista. 

Il Front National ha iniziato un percorso di cambiamento di pelle a partire dagli anni 2000 e in modo accelerato e a tratti clamoroso con il passaggio di consegne da Jean Marie a Marine. Marine sin dal 2011, in vista delle presidenziali del 2012, ha inferto una svolta programmatica statalista, antiliberale, di critica dei processi di globalizzazione e deindustrializzazione, contro lo strapotere del capitalismo finanziario e i vincoli esterni posti dall'apertura dei mercati internazionali ivi incluso il mercato unico europeo. Critica a cui si è affiancata una crescente attenzione a tematiche sociali care storicamente alla sinistra sociale, come la difesa dei livelli salariali, la lotta contro le delocalizzazioni produttive delle multinazionali, la difesa del potere d'acquisto delle pensioni e un contenimento dell'età pensionabile. Questo spostamento verso le tematiche sociali si è tradotto in proposte piuttosto dirette quali l'abolizione della Loi Travail e la fissazione dell'età pensionabile a 60 anni con 40 anni di anzianità in un momento storico in cui la gran parte di economisti e politici afferma l'urgenza di portarla da 62 a 65 per sanare gli squilibri finanziari del sistema pensionistico francese. 
Si aggiungono a questi punti sociali e redistributivi in senso progressivo tratti programmatici più in linea con lo spirito liberista originario del FN, come il taglio delle tasse non solo per gli scaglioni più poveri (del 10%) ma anche per le società di medie dimensioni.
Vi è poi il decisivo tema anti-unioneuropeista, molto accentuato, ma allo stesso tempo ambiguo nella concretezza delle proposte specie a ridosso delle fasi più recenti della campagna elettorale. Dall'idea di un'uscita unilaterale dai trattati e dalla moneta unica si passa a più tiepide e non chiare forme di compromesso.
Tutto il programma economico-sociale del FN di Le Pen è comunque incentrato su una spiegazione della crisi della Francia quasi esclusivamente legata alle dinamiche della globalizzazione, subordinando il problema redistributivo (non solo in termini di giustizia sociale, ma anche di rilancio della domanda) ad una semplice conseguenza degli squilibri della globalizzazione selvaggia. E' evidente in questo un'impostazione integralmente nazionalistica non solo strumentale in senso sovranista (come può essere quella di Melanchon e di qualsiasi forza di sinistra antiglobalista) ma anche nei fini di lungo periodo: come se il semplice ritorno alla sovranità nazionale fosse di per sé il viatico per la soluzione di ogni problema sociale, dalla povertà alla disuguaglianza distributiva, come se questione nazionale e questione sociale (che pure si intrecciano strettamente) semplicemente coincidessero. 
Non solo! Il lato destro sciovinistico del Front National emerge prepotentemente in altri due ambiti: l'immigrazione e la gestione degli stranieri e la politica estera (ivi incluso l'atteggiamento verso l'Islam e i paesi islamici).
Sul primo punto il programma del FN è molto pericoloso. Non tanto perché voglia porre un freno o una maggiore regolamentazione ai flussi migratori (punto da discutere con cautela nel merito, peraltro in parte condiviso dallo stesso Melanchon nelle sue ultime esternazioni), ma perché si muove verso la creazione di una società binaria tra stranieri e cittadini in cui i secondi beneficiano di più diritti fondamentali rispetto ai primi. Si tratta di un'impostazione molto pericolosa che può dar luogo ad una rottura interna del patto sociale gravida di terribili conseguenze materiali e culturali. Sono due in particolare i punti controversi: la "preference nationale" accordata alle imprese tramite trattamenti fiscali differenziati per l'assunzione di lavoratori autoctoni o stranieri, con la creazione di fatto di un duplice mercato del lavoro; la soppressione de l'Aide médicale d'Etat a favore degli stranieri in posizione irregolare. Queste due misure, insieme a molti altri pronunciamenti minori sparsi qua e là nel programma del FN mirano alla creazione di una società sempre più spaccata e binaria dove si sviluppa la contraddizione tra nazionale e straniero dando luogo ad un'inevitabile guerra tra poveri a tutto vantaggio della classe dominante. Contraddizione aggravata da pronunciamenti xenofobi, islamofobi ossessivi.
In politica estera il Front National è sciovinista e nazionalista. Se da un lato mette in discussione alcuni aspetti dell'interventismo permanente dell'occidente nei teatri di guerra, denunciando il ruolo egemonico degli Stati Uniti e persino propendo un'uscita della Francia dal comando integrato NATO in cui l'aveva trascinata Sarkozy violando la lunga tradizione gaullista della politica estera francese; dall'altro riproduce uno schema imperialista di tipo nazionalistico di rinnovata grandeur, un sogno malcelato di Francia neo-coloniale capace di trainare i destini del terzo mondo francofono ritagliandosi un posto al sole nella contesa internazionale imperialistica. Senza dimenticare peraltro le posizioni filo-israliane del front national che dimostrano ancora una volta la facilità dei vecchi anti-semiti fascisti di riciclarsi in aperti sostenitori del sionismo di Israele (cosa peraltro già ampiamente nota in epoca fascista e nazista): naturale conciliazione tra suprematismi.
Insomma nulla di buono per chi auspica pace, rispetto della sovranità nazionale di tutti i paesi e la fine di ogni politica di ingerenza e di condizionamento dei paesi più deboli. 

Qual è quindi in definitiva la natura del Front National di Marine Le Pen? Quella di una destra nazionalista per lo più xenofoba, ad accentuate venature sociali e dirigiste facenti perno per lo più su una critica della globalizzazione capitalistica che sfocia nella rivendicazione di uno spazio nazionale, garanzia, sic et simpliciter, e fuori dalla dinamica permanente del conflitto di classe, di armonia sociale, crescita e benessere. 
Questa sintesi rappresenta naturalmente la faccia evidente e direi meno oscura del Front National, quella della svolta statalista anti-liberale, post-fascista e a xenofobia "controllata", portata avanti alacremente in pochi anni da Marine che ha voltato apparentemente le spalle al ben più impresentabile padre e alla vecchia guardia fascistoide, anti-comunista e liberista dei frontisti anni '70 '80 e '90.
Ma il Front National non è solo Marine Le Pen e la sua destra sociale anti-europeista venata di istanze economiche "gauchistes". E' anche il suo passato, i suoi membri manifestamente razzisti, i deliri islamofobi, la sua cultura di fondo senza dubbio fascistoide e il suo securitarismo aggressivo. 


La necessità di una linea autonoma dai due blocchi

Ecco qui presentate le due edificanti alternative del voto di domani: 

da un lato il sovranismo sciovinistico, pseudo-sociale di Marine LePen, appena sintetizzato nei suoi tratti salienti e nelle sue diverse facce visibili e meno visibili, fino ai suoi lati più oscuri; 
dall'altro lato il delfino eletto dai media e dal blocco di potere dominante, rappresentante di una destra liberista, drasticamente anti-lavorista, pro-mercato e pro-impresa, ultra-europeista, ideologa del superamento delle pastoie ideologiche novecentesche per un liberalismo integrato e "progressista", filo-americano e anti-gaullista, post-moderno e post-ideologico nei tratti culturali. L'uomo che incarna due storiche funzioni: quella di portare la Francia in via definitiva fuori dalla tradizione gaullista e post-gaullista riallineandola all'europeismo filo-tedesco e insieme filo-americano; e quella di completare il lavoro di smantellamento del diritto del lavoro francese, ultimo baluardo europeo probabilmente dei residui social-democratici e sindacali del '900. 

Di fronte a questo scenario una forza autenticamente sociale e popolare che fa della difesa del lavoro e della costruzione di una società solidaristica alternativa a quella capitalistica la sua bussola di orientamento, dovrebbe rifiutare di prendere parte e schierarsi ad ogni costo.

Cercherò di argomentare che, comunque applicato, il criterio del meno-peggio in questo caso specifico (ma probabilmente ciò varrà anche per la false alternative che si andranno a delineare negli anni a venire in molti paesi europei) porterebbe a strade del tutto errate, pericolose e che soprattutto condurrebbero al suicidio politico le forze anti-capitaliste, socialiste, comuniste o social-democratiche che siano, risucchiate alternativamente in un vuoto sovranismo privo di contenuti sociali forti o semplicemente dileguate e autodissolte nell'accettazione del paradigma neo-liberale. Proprio questa seconda tendenza è quella che ha portato ad oggi alla scomparsa di fatto di socialisti e comunisti dal panorama politico europeo negli ultimi 20 anni. Ripercorrerla proprio nel momento in cui si stanno aprendo preziosi spazi di agibilità e consenso sarebbe una mossa autodistruttiva e subalterna.

No alla scelta di Macron contro Le Pen

Procediamo per passi. 
Molti a sinistra (e mi riferisco alla sinistra almeno a parole anti-liberale, di quella liberale naturalmente è ovvia la scelta di campo per Macron) in Francia direttamente così come in altri paesi europei in termini di analisi politica, ritengono che, per quanto tale scelta sia sofferta, sia necessario appoggiare Macron contro il pericolo fascista di Marine Le Pen. 
Questa scelta che riedita in modo pedissequo l'orientamento meno-peggista contro le varie destre e a favore dei vari centro-sinistra neo-liberali, avuto in tantissime occasioni dagli anni '90 in poi in molti paesi, è ispirata alternativamente  ad un errore di valutazione (nel migliore dei casi) oppure ad una reale percezione culturale di maggior desiderabilità dell'ordine neo-liberale canonico rispetto alle alternative populiste destrorse, sempre entro la cornice dello Stato di diritto formale, (nel peggiore dei casi). 

I pericoli del neo-liberalismo e del suo volto repressivo e totalitario

Analizziamo il caso dell'errore di valutazione. Tale errore a sua volta deriva da due letture alterate. La prima, la più grave e lampante, è la sottovalutazione dei pericoli insiti nella gestione ordinaria neo-liberale delle contraddizioni sociali e delle politiche economiche di cui un Macron è un esempio perfetto e lampante. Sebbene avversato radicalmente nei contenuti politici il neo-liberalismo democratico viene visto in quest'ottica, come un contesto entro cui esercitare almeno una libera dialettica politica e rilanciare in chiave futura un'alternativa di società a quella del mercato e del profitto. Insomma una sorta di regno negativo dove vi sarebbe però pur sempre libertà di azione garantita, minacciata invece dai populismi di destra. Si dimenticano però almeno cinque semplici circostanze: in primo luogo le politiche neo-liberali basate sul vincolo esterno cogente dei trattati europei sono state fino ad oggi il più potente strumento di neutralizzazione della libertà sostanziale di avanzare opzioni alternative di politica economica e di redistribuzione del reddito e delle risorse. La creazione e il rafforzamento dello spazio dei trattati europei basati sui vincoli ristrettivi di finanza pubblica, l'annullamento della sovranità pubblica industriale sulla produzione, la distribuzione dei redditi e la proprietà delle imprese e la concorrenza al ribasso sui salari e i costi di produzione imposta dall'apertura delle economie verso l'estero sono straordinari dispositivi che hanno ridotto ai minimi termini la capacità di resistenza della classe subalterna ai ripetuti attacchi padronali e alla forza soverchiante del mercato globale, provocando il depauperamento continuo e inesorabile dei salariati dequalificati e di media qualifica e del piccolo lavoro autonomo.


Non sarà fascismo politico esplicito, ma è pur sempre un vincolo oggettivo di spaventosa forza disciplinante che ha dato luogo alla più grande redistribuzione regressiva del reddito dell'ultimo secolo. Se fascismo non è, di certo ha però funzionato in maniera straordinariamente più efficace e duratura dei fascismi politici nel determinare il contenimento del conflitto di classe a vantaggio della classe sociale dominante sempre più aggressiva e più ristretta ad un'elite di potenza soverchiante. In secondo luogo i partiti neo-liberali al potere hanno dimostrato di avere scarsa cura delle Costituzioni nazionali dal momento che ne hanno sistematicamente violato la sostanza in molteplici casi stravolgendo l'assetto socio-economico dei paesi europei spesso travalicando le stesse garanzie costituzionali sociali oppure imponendo guerre costituzionalmente bandite. In terzo luogo è sempre più assimilabile ad una pratica repressiva anche la gestione dell'ordine pubblico e degli apparati di sicurezza pubblica dei paesi occidentali.
In quarto luogo i paesi occidentali guidati da governi neo-liberali hanno ampiamente dimostrato di non avere alcuno scrupolo nell'appoggiare i peggiori regimi dittatoriali e gruppi paramilitari di vario stampo, dagli islamisti radicali in medio-oriente ai nazisti ucraini. Non proprio un nitido esempio di amore per lo Stato di diritto liberale, quanto meno non per altri popoli.
Infine, come è stato ribadito da molti commentatori sostenitori da sinistra della bontà di una linea astensionista nel confronto Macron-Le Pen (Emiliano Brancaccio, comitato Eurostop in Italia), il neo-liberalismo è la fonte primaria che crea il necessario retroterra socio-economico per la creazione di sacche di consenso alla destra populista e ai neo-fascismi. Optare dunque per un male (il neo-liberalismo) per battere un altro male di cui il primo è la causa essenziale appare quanto meno contraddittorio.

L'effettiva natura delle destre populiste di alcuni paesi europei




Più difficile, delicato e forse più interessante è l'errore speculare a quello della sottovalutazione del pericolo neo-liberale, ovvero il rischio di sopravvalutazione parossistica del pericolo rappresentato da alcune delle cosiddette destre populiste, non certo perché vada escluso in Europa a priori il rischio di involuzioni autoritarie di carattere fascista che reputo invece reale ed estremamente preoccupante (e che sarebbe irresponsabile e gravissimo sottovalutare), ma perché non è affatto detto che alcune delle attuali destre populiste dell'Europa occidentale siano immediatamente associabili a tali rischi estremi contro i quali senza ombra di dubbio anche il più strenuo degli anticapitalisti non dovrebbe avere ombra di dubbio nello scegliere il male minore di un qualsiasi Macron, Renzi, Monti, Sarkozy, Rajoy o Blair. Su questo occorre essere molto chiari. Di fronte ad un reale rischio di involuzione autoritaria di stampo fascista, neo-nazista o più in generale di soppressione delle minime garanzie costituzionali dell'ordine liberale non dovrebbe esserci alcuna esitazione sul male minore da appoggiare. Nessun richiamo al purismo, all'autonomia dei comunisti e dei socialisti e ai progetti di fondo di società, sarebbero legittimi a fronte di siffatte drammatiche circostanze storiche. 
A titolo di esempio: se vi fosse un ballottaggio tra Macron e i neo-nazisti ucraini che si sono impadroniti del potere grazie all'appoggio euro-americano (ovvero all'appoggio dei governi neo-liberali di cui Macron è punta di diamante), non avrei dubbi ad appoggiare tatticamente Macron. Nessun equivoco su questo! 
Posto questo, una posizione astensionista, di fronte al ballottaggio Macron-Le Pen deve allora sopportare l'onere di dimostrare che il Front National di Marine Le Pen non rappresenta un pericolo di involuzione fascista autoritaria e di sospensione delle garanzie democratiche liberali. Si tratta di un argomento complesso che merita la massima attenzione. Alcuni coraggiosi sostenitori di una linea astensionista che hanno portato ottimi argomenti del tutto condivisibili e sovrapponibili a quelli qui enunciati come Emiliano Brancaccio (http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/04/25/news/perche-io-di-sinistra-non-voterei-macron-per-fermare-la-le-pen-1.300265) mi sembra che abbiano però eluso questo punto delicato che, a ben vedere è l'unico davvero in grado di poter convincere sinceri antifascisti socialisti e comunisti a ritenere l'astensione la scelta più saggia nel caso del ballottaggio francese e un domani chissà in Italia e altri luoghi dove simili scenari purtroppo potrebbero ripetersi. Le possibilità sono due: o Marine Le Pen cova un progetto di involuzione apertamente autoritaria e fascista e allora occorre senza se e senza ma votare Macron anche se Macron è un fanatico neo-liberale e anche se il neo-liberalismo è la causa prima del fascismo del 21secolo; oppure Marine Le Pen è uno dei numerosi esempi di destra populista senza dubbio portatrice di una mentalità xenofoba e securitaria e provvedimenti odiosi su alcune specifiche materie, nonché fascistoide nella cultura, ma non è assolutamente inquadrabile come fascista nel senso tradizionale del termine pronta cioé a sovvertire in modo diretto e indiretto l'ordine democratico, a sopprimere le libertà sindacali e ad avviare una campagna violenta contro i lavoratori, la sinistra, i socialisti e i comunisti ovvero quanto i fascismi storici hanno compiuto in Italia, Germania, Spagna, Portogallo paesi dell'est Europa, Grecia e infine di recente in Ucraina.



In questi giorni alcuni media francesi sono scatenati nel dipingere il Front National come forza paranazista disponibile a sovvertire l'ordine costituito nel caso di vittoria di Marine LePen. Insomma si agita lo spettro di un rischio elevato di reale involuzione in senso autoritario di stampo fascista. L'appoggio del PCF (partito comunista francese) a Macron si muove credo da questo tipo di immagine. Diverso l'orientamento di Melanchon che pur escludendo il voto alla Le Pen non ha però (a mio avviso saggiamente) dato indicazioni di voto per Macron.
Non mi è del tutto chiaro se i motivi della scelta del PCF e di altre componenti della sinistra francese siano derivati da una sopravvalutazione del pericolo Le Pen, da una sottovalutazione del pericolo Macron o più semplicemente da una coerente, cosciente considerazione non condivisibile del mondo neo-liberale come meno peggiore del mondo destrorso-populista ma non sovversivo e fascista  e quindi come una chiara scelta di campo tra le opzioni capitalistiche interne al contesto istituzionale attuale, ovvero ancora una volta una scelta di subordinazione alle elites capitalistiche.

Dando per buona l'ipotesi di prevalenza della paura di un'involuzione autoritaria del Front National, azzardo una mia prudente ipotesi (del tutto aperto alla smentita). La mia netta impressione è che il Front National targato Marine Le Pen rappresenti oggi né più né meno che una variante di destra populista del capitalismo liberal-democratico, del tutto interno al paradigma neo-liberale di cui rappresenterebbe una variazione sul tema verso un maggior appoggio al capitalismo industriale delle medie e grandi imprese nazionali con il tentativo di superare il paradigma dell'austerità con politiche di moderato (molto moderato) sganciamento da alcune dinamiche del mercato globale e di rilancio keynesiano della domanda aggregata; con il chiaro intento di gestione maggiormente "nazionale" del conflitto di classe attraverso una mediazione tra contenimento salariale e aumento dell'occupazione, a tutela degli interessi capitalistici. Schema che darebbe luogo a qualche lieve e superabile increspatura non troppo rilevante al cospetto del capitalismo delle multinazionali e a politiche di allargamento del consenso alla classe salariata in ottica consociativistica e di irregimentazione "più politica" delle rivendicazioni sindacali. A ciò si aggiunge in politica estera la proposizione chiara di regurgiti neo-coloniali per restituire maggior centralità alla Francia al cospetto dell'imperialismo americano, possibilmente con una maggior vicinanza alla Russia. 
Più che fascista sovversiva Marine Le Pen e il FN di oggi appaiono quindi come neo-gaullisti di destra  con pallide venature sociali.
Questo mi sembra il tratto saliente del FN national oggi, non poi troppo diverso, anche se meno liberale, da quello che poteva essere il classico governo di destra italiana che univa Lega, Forza Italia e post-fascisti convertiti al neo-liberismo sotto l'egida di Berlusconi. Forse che il centro-destra italiano non ammiccava esplicitamente o implicitamente a gruppuscoli fascisti di scarso rilievo effettivo? Forse che Alleanza Nazionale non preveniva direttamente dal MSI a sua volta ascendenza dei post-fascisti riciclati dopo il 1945? Non è quindi la radice post-fascista di un movimento a darne automaticamente la rappresentazione dei suoi fini, obiettivi e senso ultimo nel presente.
L'unica differenza rilevante è che il Front National ha evoluto il proprio discorso politico anziché verso una sponda neo-liberale pura (come Alleanza nazionale in Italia dopo il 1992) verso contenuti gollisti sovranisti di destra. Qualcosa di simile a quello che vorrebbe fare in versione nostrana casareccia un partito come Fratelli d'Italia della post-fascista Giorgia Meloni, o la Lega nord, anche se la Lega ha su molti temi posizioni più liberiste).
Se così stessero le cose (ed ho l'impressione che stiano così) lo scontro tra Macron e Le Pen non andrebbe più letto, neanche da sinistra, come scontro tra neo-liberalismo entro una cornice legale e di diritto e involuzione autoritaria fascista con rischio di soppressione delle garanzie costituzionali, bensì come uno scontro interno alla gestione del capitalismo neo-liberale, in cui il Front National rappresenta una variante di destra vagamente sovranista, schiettamente nazionalista che rivendica spazi internazionali per la Francia e che pretende di uscire dalla crisi economica tramite una gestione interna e nazionale del conflitto di classe sfruttando esplicitamente (e non più solo implicitamente) lo scontro tra autoctoni e immigrati. Una versione, quella del capitalismo lepenista che ad oggi è infinitamente meno forte e molto meno ben voluta dalle alte sfere del potere economico, ragion per cui tutta la stampa dei grandi possidenti  e i mercati finanziari appoggiano incondizionatamente Macron.
Ad oggi il blocco di potere che ruota attorno a Macron, a livello nazionale e internazionale è quindi la carta vincente del capitalismo più aggressivo intenzionato ad azzerare i diritti del lavoro entro la logica spietata della competizione internazionale tra capitali oligopolistici.
Il carattere prevalentemente neo-gaullista sovranista di destra che caratterizza il FN del 2017 (confermato dai recenti acccordi con il candidato gaullista Dupont-Aignan) non impedisce assolutamente a tale partito di essere impregnato nella sua struttura di cultura fascistoide più o meno esplicita, particolarmente forte in alcuni quadri del vecchio fronte in buona parte liquidati da Marine Le Pen dopo il 2012 ma ancora rilevanti entro il partito. Una cultura che pesca nei sentimenti più retrivi diffusi in alcuni strati popolari e della classe media, che alterna xenofobia e securitarismo. Va però anche detto che questa cultura non è certo esclusiva del Front National ma si diffonde, come tragico risultato della crisi economica e valoriale indotta dalla società capitalistica, in tutti i paesi prendendo forme variegate, talvolta più esplicite talvolta implicite e nascoste e spessissimo fatte proprie dagli stessi membri dell'establishment rispettato.
Non era forse fascistoide nel metodo e nel linguaggio, solo per restare in area francese, il disprezzo di un Sarkozy per la "racaille" delle banlieu, per citare l'esempio di un politico integrato nell'arco del politicamente presentabile? E la stessa arroganza di Macron non fa parte della stessa deriva culturale? E di simili esempi di deriva culturale potrebbero esserne fatti a decine per l'Europa di oggi.

Orbene, se il FN rappresenta una destra populista e xenofoba, variante interna al neo-liberalismo capitalistico ed al blocco imperialista occidentale, e non un partito fascista sovversivo incline a derive schiettamente autoritarie, esso si qualifica allora come un radicale avversario politico di lunga durata più che come un'emergenza istantanea che richieda la formazione di improbabili fronti comuni di contenimento che vadano dai comunisti alla destra ultra-liberista. Un avversario da combattere politicamente  in modo duro, netto, senza compromessi, senza ambiguità, al pari dell'avversario politico incarnato dai partiti del neo-liberalismo di gestione ordinaria. 

Il terreno su cui combattere le destre populiste

Ma vi è un altro elemento di grande importanza. Il Front National ha esteso il proprio successo elettorale verso le classi subalterne, spostando dal 2012 in modo netto il proprio discorso politico sui temi sociali più rilevanti e più sensibili per i lavoratori più colpiti dai danni della globalizzazione (ovvero i lavoratori salariati dell'industria e dei servizi a basso grado di qualificazione ed il piccolo lavoro autonomo). Lo ha fatto in modo ben più clamoroso e dettagliato di quanto non lo abbia fatto ad esempio il liberista-protezionista Trump negli Stati Uniti, scendendo nel dettaglio di proposte che ricalcano da vicino cavalli di battagli tipici della sinistra socialista. 
E' quindi ancora più evidente la necessità da parte di socialisti e comunisti di affrontare il Front National sul terreno di una proposta sociale radicale e coerente e non  sul terreno dell'antifascismo istituzionale dei larghi fronti liberali di emergenza.



Il Front national lo si affronta rimarcando le differenze qualificanti di programma sulle questioni nodali del conflitto redistributivo e dei diritti del lavoro, rimarcando le contraddizioni insite nella sua proposizione di una soluzione nazionale e corporativa al conflitto di classe nonché la pericolosa strumentalità dello scontro tra lavoratori stranieri e autoctoni. Il Front National, così come in Italia e altrove ogni destra populista, specie se connotata da discorsi pseudo-sociali, la si affronta riacquisendo quella capacità di essere nazionalpopolari in senso gramsciano esercitando egemonia sulle classi popolari non solo in termini di rappresentanza degli interessi di classe, ma anche in termini di coltivazione di un immaginario di società diversa, liberando la narrazione dall'impostazione individualista e libertaria che ha devastato la sinistra contemporanea rendondola ancella protestataria per lo più innocua dell'ordine liberale. E infine, lo si affronta impostando in modo corretto, democratico e non demagogico temi delicatissimi come quelli dei flussi migratori e dell'identità e della sovranità politica nazionale al cospetto dei processi di globalizzazione dei mercati.

Ogni altra strada che privilegi il punto di vista dell'impresentabilità e rozzezza dei populismi destrorsi alla schietta competizione sulla coerenza dei programmi sociali ed economici, è destinata di fatto a rafforzare le destre che trovano terreno fertile proprio nel loro ergersi ipocritamente a uniche paladine della protesta contro i salotti buoni della finanza.

In questo senso Melenchon ha saputo abilmente costruire un programma d'opposizione da sinistra alla globalizzazione capitalistica, corredato da una critica relativamente radicale dell'Unione europea e alla rivendicazione di spazi di sovranità nazionale e popolare, condicio sine qua non per avviare una critica del capitalismo e la proposizione di un diverso modo di produzione. Su molti aspetti il suo programma è stato ambiguo, ma nel complesso va registrata una capacità di entrare nel terreno populista inteso nel senso migliore del termine come "politica per il popolo, per la vasta maggioranza, semplice, diretta e corredata da una capacità di conquista dell'immaginario e di canalizzazione virtuosa della protesta e del disagio".


Va a suo onore e merito la capacità di aver resistito alle sirene del fronte unito anti-Le Pen alla vigilia del secondo turno. Certo, anche qui l'orientamento ha riservato qualche ambiguità, dal momento che non si è espresso pubblicamente per l'astensione, dando un'indicazione di massima in tal senso, ma si è limitato ad una dichiarazione di libertà di voto, ferma restando l'esclusione dell'opzione Front National. In qualche modo è così ricaduto sebbene in modo indiretto e parziale nel ricatto del meno peggio, ma lo ha fatto quanto meno in modo intelligente smarcandosi in parte dall'armata variopinta dei sostenitori espliciti di Macron. 
Una parte rilevante della sua impostazione programmatica, e l'essersi tenuto parzialmente fuori dal menopeggismo compulsivo alla vigilia del secondo turno, sono due primi passi importanti che marcano una strada nuova per le forze socialiste, comuniste e anticapitaliste europee. 


No a Le Pen contro Macron 

Un'ultima nota speculare non marginale. Se, come ho tentato di dimostrare è sbagliato  e fuorviante il sostegno a Macron contro Le Pen, è parimenti errato pensare di sostenere in chiave menopeggista Le Pen ritenendo Macron il male maggiore da battere.
Mi rivolgo ora non certo ai sostenitori di Le Pen che ne apprezzano compiutamente i contenuti (come non mi sono rivolto precedentemente ai sostenitori aperti di Macron), ma a tutti coloro (infinitamente meno numerosi a sinistra rispetto alla platea dei "votiamo Macron turandoci il naso", ma forse meno esigui di quanto si possa ritenere) che dopo aver ben compreso il carattere pericolossisimo dell'estremismo neo-liberale sono giunti alla conclusione che persino una destra populista (come quella lepenista) possa rappresentare in qualche misura un meno peggio. 
Anche questa posizione è pericolosa e subalterna. Se è vero che il programma economico-sociale del Front National è globalmente meno a destra di quello di Macron, è altrettanto vero che nessun tipo di connivenza o appoggio tattico può essere dato ad una forza politica non soltanto in ultima istanza del tutto interna al paradigma dominante in merito alla gestione dei rapporti di classe, ma colma nei suoi gangli, strutture, circoli culturali e base sociale di cultura fascistoide e xenofoba. Da aggiungere, infine, che è altamente probabile che gli elementi più sociali del programma frontista sarebbero quasi certamente messi in soffitta per due semplici motivi: in primo luogo per la fortissima ambiguità di alcune proposte che si prestano a facili passi indietro; in secondo luogo per la base sociale composita e per l'intrinseco interclassismo nazionalistico che porta inevitabilmente alla lunga alla subordinazione di qualsiasi velleità solidaristico-redistributiva a favore dello sviluppo capitalistico nazionale. Da rimarcare infine ancora una volta il ruolo neo-coloniale che il Front National apertamente rivendica niente affatto in discontinuità con l'imperialismo delle classi dominanti dell'ordine neo-liberale a guida americana. 
Infine quello che è oggi un blocco di potere chiaramente secondario, la destra populista, potrebbe diventare un domani la scelta principale delle classi dominanti (o meglio di una parte di esse) strette da una crisi economica che potrebbe accentuare pericolosamente la subordinazione e la messa all'angolo di alcuni interessi contro altri nella competizione internazionale. Ecco che allora quelle destre populiste che oggi giocano da attori anti-sistema potrebbero divenire le pedine preferenziali di gestione delle contraddizioni e del conflitto di classe. Non significa necessariamente fascismo nel senso tradizionale del termine, ma sicuramente una diversa modalità più politico-autoritaria e meno legata al vincolo estero della globalizzazione di contenimento del conflitto distributivo e del controllo sociale. 
Nessun sostegno neanche tattico è quindi ammissibile, in ottica socialista, a forze che in nessun modo possono rappresentare un miglioramento sociale o un'alternativa di sistema auspicabile né nel breve, né nel lungo periodo.


Astensione unica strada per una piena autonomia nella costruzione di un'opposizione sociale, in Francia e ovunque

L'unica scelta coraggiosa e coerente è quindi l'astensione. Astensione non significa incapacità di cogliere i diversi rischi in entrambe le opzioni in campo. 
Che Macron rappresenti oggi il blocco di potere più forte e più ostile a qualsivoglia mediazione sociale tra lavoro e capitale è indubitabile. Che il suo programma politico-economico sia assai più a destra di quello frontista è altrettanto chiaro. Allo stesso tempo è però chiarissima, sebbene in parte camuffata, la natura reazionaria del Front National, la sua lettura in chiave nazionalistica delle contraddizioni capitalistiche, la subordinazione della questione sociale al problema del sovranismo letto non dall'angolatura popolare degli interessi della maggioranza, ma dal punto di vista degli interessi imprenditoriali delle medie e persino grandi imprese francesi che subiscono gli effetti negativi dell'apertura dei mercati in tempo di crisi. Così come è evidente l'uso strumentale del problema migratorio per il quale si avanzano pericolose soluzioni di spaccatura binaria del corpo sociale senza individuare minimamente le cause prime di questo dramma globale di sradicamento abnorme di masse di esseri umani. E così come è evidente la becera islamofobia irresponsabile che rinfocola le teorie dello scontro di civiltà.

Lo scontro tra destre populiste più o meno reazionarie e più o meno velate di programmi sociali e blocco "centrista" neo-liberale nelle sue numerose varianti di costume di destra e di "sinistra" sarà destinato a prolungarsi a lungo, almeno fintanto che la crisi economica e il capitalismo neo-liberale continueranno a produrre miseria, crescita delle disuguaglianze interne e internazionali e fintanto che non sorgerà un blocco credibile e culturalmente egemone di opposizione sociale solidaristica socialista propulsore di un'alternativa radicale anche se graduale al modo di produzione capitalistico nel suo complesso, a partire dalla sua strutturazione neo-liberale.

E' il capitalismo, nella sua versione distruttiva, post-politica, tecnocratica e intollerante verso qualsivoglia mediazione, ancorato al ricatto permanente e devastante del vincolo esterno, il nemico principale dell'umanità e dei popoli. I partiti politici che dagli anni '90 ad oggi hanno governato i paesi europei sono i responsabili politici di questo scempio, proni alla piena realizzazione del disegno di dominio messo a punto dai grandi blocchi di interessi economici. La destra populista è un effetto e un sintomo di una malattia che si chiama neo-liberalismo che ha portato in pochi anni alla distruzione di ciò che era stato costruito in termini di solidarismo sociale, alla distruzione dei vincoli comunitari, dei legami umani, al dominio dei flussi impersonali di denaro sulla persona, sui luoghi e sulla vita. In una parola alla creazione di una società atomizzata, sperequata e sofferente, dominata dal denaro, dal mercato, dalla competizione e dalla guerra. 


La lotta di campo tra centro neo-liberale e destra populista continuerà. Nuove destre populiste sorgeranno fintanto che queste contraddizioni e spoliazioni continueranno ad avere luogo. Nuove destre trarranno linfa dalle rovine della società individualistica e dalla dissoluzione dei legami umani. Nuovi e più foschi pericoli di stampo reazionario si profilano all'orizzonte, forse sì, un domani, davvero sovversivi dell'ordine e delle garanzie democratiche e di diritto, al cospetto dei quali una Marine Le Pen o un Matteo Salvini potranno appariranno come simpatici piazzisti chiaccheroni. Per prevenire ed evitare il peggio la soluzione è soltanto quella di arginare, limitare e infine arrestare e annullare la barbarie del capitalismo assoluto. E per farlo occorre costruire un'opposizione sociale credibile. E per essere credibile questa opposizione sociale deve porsi schiettamente al di là dello scontro tra correnti e varianti dell'ordine capitalistico. Pena, la sua sparizione e il suo risucchiamento inevitabile. 
La storia di molte sinistre europee degli ultimi trent'anni lo dimostra in modo drammatico ed inequivocabile. Le sinistre sociali, socialiste e comuniste che hanno inseguito il neo-liberalismo di centro-sinistra e che si coprono sotto al suo cappello protettore contro presunti o veri populismi reazionari, destre impresentabili e fascistoidi e chi più ne ha più ne metta, si sono consegnate ad un destino di autodistruzione, scomparsa o assorbimento in forze sistemiche al servizio dell'ordine vigente. In Italia venti anni di antiberlusconismo hanno devastato una sinistra comunista che sebbene già in stato malandato e piena di equivoci e traballamenti ancora fino agli anni '90 aveva il semplice pregio di esistere (che non è poco). Governi di sedicenti centri-sinistra (in verità destre liberali in salsa progressista) costruiti su armate variopinte antiberlusconiane, anti-leghiste e via dicendo, hanno dato luogo alla serie più clamorosa di dismissione dello Stato nell'economia, attacco ai diritti del lavoro, adesione ai trattati liberisti europei e ritorno in grande stile della guerra di aggressione. La storia questo insegna, in Italia e in tutta Europa.
Allo stesso modo vi sono variabili di fondo ineludibili e urgenze in merito alle quali non è possibile scendere a compromessi, poiché da esse dipende il triste scenario in cui siamo precipitati. La principale urgenza è oggi la capacità di sganciarsi dal vincolo esterno della globalizzazione dei mercati che ha ridotto a zero la forza delle classi subalterne e la possibilità di proporre un discorso politico coerente lasciando così praterie ai discorsi ambigui della destra reazionaria che gioca sul doppio binario dello sfilacciamento del corpo sociale ridotto a individui atomizzati e sulla programmatica impotenza strutturale della sinistra sociale. Lo sganciamento dal mercato globale, in Europa, significa anzitutt fuoriuscita da quell'insieme di trattati liberisti che prendono il nome di Unione europea. Modi, tempi, tecnicismi, alleanze tra paesi in simili condizioni sono tutte variabili degne della massima attenzione e da discutere, ma il problema di fondo è ineludibile. 

Ogni atto di accondiscenza verso l'attuale contesto di fondo e ogni atto di fiducia o di menopeggismo a favore degli epigoni dell'ordine neo-liberale è un passo indietro verso la costruzione di alternative credibili ed egemoni ed è un doppio regalo al potere costituito. Un regalo al potere nella sua forma attuale, e un regalo alla sua variante destra reazionaria che dalle miserie generate dai danni di tale potere trae linfa e forza.

Non c'è miglior rimedio al rischio di futuri veri fascismi che combattere oggi il capitalismo a partire dalle sue forme e manifestazioni più radicali e distruttive.








2 commenti:

  1. Se il concetto di cittadinanza ha ancora un senso, non si capisce perché scandalizzarsi della "contraddizione fra nazionale e straniero". Insegna Carl Schmitt che il concetto di uguaglianza in democrazia presuppone la "sostanza" dell'uguaglianza: questo significa che l'eguale di determina in rapporto al diseguale, in base cioè a una "sostanza" che può consistere nell'appartenenza religiosa, etnica, ideologica (ad esempio la "virtù" giacobina), di classe, ecc. Viceversa è proprio un concetto indifferenziato di uguaglianza che, permettendo l'emergere dei poteri di fatto (dal momento che essi sfuggono ad ogni formalizzazione), fa il gioco della classe dominante e indebolisce il concetto di cittadinanza, la quale può venire facilmente elargita a tutti, non avendo essa di per sé alcun peso politico. La difesa dello Stato nazionale pertanto richiede un concetto forte di cittadinanza, che nelle attuali condizioni non può essere basata che sulla sostanza della nazionalità.

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  2. Il punto è che da parte delle cosiddette "destre populiste" integrate più o meno chiaramente nella gerarchia dei rapporti di forza espressi dal capitalismo non vi è semplicemente il tentativo, di buon senso, di riabilitare il concetto di cittadinanza sic et simpliciter. Vi è invece l'idea di far coesistere il nazionale e lo straniero in uno stesso mercato del lavoro creando un mondo binario di concorrenza tra queste due figure, sistema ideale per indebolire la forza salariata contrapponendo tra loro due diverse figure di lavoratori. Questo ciò avviene oggi di fatto, ma nel discorso lepenista assumerebbe connotati "di diritto". Come mai LePen propone non la chiusura delle frontiere, ma un flusso controllato di 10.000 stranieri ogni anno. Vuole quindi gli stranieri e poi vuole la "preference nationale". E' una contraddizione nei termini che svela il segreto della volontà di costruzione di una società binaria in cui lo straniero diviene la valvola di sfogo del disagio sociale (come del resto già è).

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