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venerdì 9 dicembre 2016

Governabilità, rappresentanza, conflitto sociale e alternativa



Il referendum Costituzionale del 4 Dicembre, al di là delle sue interpretazioni in chiave politica contingente, ha incarnato in modo molto chiaro lo scontro tra due differenti idee dei rapporti istituzionali e di potere: l’una incentrata sulla rappresentanza e l’altra, opposta, incentrata sulla governabilità priva di ostacoli e pastoie.
I provvedimenti che nello specifico orientavano i rapporti istituzionali verso una maggiore (supposta) governabilità e verso un maggior potere dell’esecutivo erano in particolare la modalità elettiva di fatto del nuovo senato (una sorta di quasi-maggioritario costituzionalizzato) e il voto a data certa.
Tralascio quindi in queste riflessioni ulteriori gli altri aspetti critici della riforma di cui ho discusso nel precedente articolo per offrire ora alcuni spunti generali (che vanno al di là del dibattito referendario) sui rapporti tra rappresentanza e governabilità.




Rappresentanza e governabilità: due principi da qualificare nel contesto

Per chiarire qual è il terreno di scontro nella preminenza tra rappresentanza e governabilità occorre anzitutto fugare il campo da un primo equivoco. Non ci troviamo in un’arena astratta dove lo scontro è quello tra decisionismo e governabilità in sé per sé e rappresentanza in sé per sé come concetti assoluti. Fermo restando che vi sono dei punti di fondo stabili che spiegherò, nella pratica buona parte di ciò che investe le procedure (e non i contenuti che hanno invece valore universale) deve dipendere dal contesto e non essere preso come principio assoluto.
Ad esempio, in un’ottica di profonda trasformazione sociale ed economica la stessa democrazia rappresentativa pluripartitica potrebbe non avere più senso per come la conosciamo oggi.
Dove il potere del denaro sia ridotto ai minimi termini e alcuni principi solidaristici economici siano generalmente acquisiti ad un livello costituzionale, la democrazia potrebbe assumere altre forme che non si fondano più necessariamente sul pluripartitismo nel senso tradizionale del termine, incentrato sul conflitto tra idee incompatibili, ma su una condivisione generale che porta in modo assai più semplice e diretto alla decisione collettiva sulla base di fondamenti strutturali già condivisi.
Ma il contesto in cui viviamo non è quello appena evocato e al momento non se ne vedono neanche lontanamente i presupposti. Il contesto strutturale in cui viviamo si chiama capitalismo ed è oggi nella sua fase peggiore e più aggressiva degli ultimi 70 anni. Un sistema in cui un pugno di poche persone detiene uno spaventoso potere economico, la ricchezza è distribuita in modo tragicamente diseguale, l’accesso all’informazione è manipolato da oligarchie mediatiche e la cultura è prevalentemente asservita alla riproduzione del potere economico di una sempre più esigua minoranza.
Questo sistema, nella sua articolata storia, si è potuto sposare con forme di rappresentanza democratica solo fino a quando tale forma di governo non ha rischiato di minare la stabilità dei suoi interessi economici costituiti.
A tratti e specie in alcune aree del mondo, questo sistema economico, per supportarsi e continuare ad esistere, perpetuando liberamente le sue eclatanti ingiustizie ha avuto bisogno di distruggere ogni residuo di sistema democratico formale in modo esplicito. In Italia, Germania, Spagna e Portogallo è accaduto negli anni ’20 e ’30 del novecento in sudamerica e in Grecia negli anni ’60-’70 per citare gli esempi più clamorosi.



In linea di massima però, quando la capacità di opposizione sociale non ha raggiunto soglie di guardia, il sistema capitalistico moderno è stato capace di sopravvivere e riprodursi senza ricorrere ai ben più fragili e spesso persino scomodi autoritarismi espliciti, preservando la democrazia formale rappresentativa. Certo, a volte a costo di bombe e stragi (Italia 1969-84), molto spesso a costo di repressione più o meno dura, ma pur sempre con la preservazione nel tempo di principi di democrazia formale.
Ecco, questo genere di democrazia non è un feticcio in sé, né un obiettivo in sé. Non le attribuisco, dato il sistema di manipolazione delle opinioni, chissà quali virtù di verità e profondità nella rappresentazione delle reali volontà di una comunità nazionale cosciente. Essa è però uno strumento prezioso, finché resta, e un’opportunità di azione alternativa a non auspicabili rivolgimenti violenti, guerre civili, scontri armati e tutto ciò che tragicamente può sconvolgere in qualsiasi momento le nostre vite (come del resto accade in tanti paesi ogni giorno).
Partiamo quindi dal presupposto che viviamo in una società strutturalmente conflittuale con interessi contrapposti, classi sociali stratificate e spaventosi divari di ricchezza e potere.
Questo è il quadro in cui va contestualizzato il dibattito sul rapporto tra rappresentanza e governabilità affinché non diventi una discussione generale del tutto sterile di polarizzazione tra “decisionismo” e “parlamentarismo” come valori astratti.

In un simile quadro conflittualistico emergono due caratteristiche fondamentali: in primo luogo la presenza di una pluralità di interessi fortemente contrastanti a cui si legano approcci politici per natura divergenti, come rappresentazione degli interessi materiali e ideali divaricati; in secondo luogo il potere del denaro che tende a conferire maggior forza anche politica e istituzionale ai rappresentati della classe sociale dominante.
La combinazione di accesa pluralità strutturale in un contesto ultra-stratificato e di enorme potere del denaro non può che trovare la propria traduzione istituzionale e il proprio limite all’ultra-potere della classe dominante, in una logica di forte rappresentatività istituzionale del conflitto.
L’alternativa è il suo annullamento a favore degli interessi dei dominanti o la sua esasperazione e costrizione in sentieri forzatamente non istituzionali.


Le finalità dei principi governisti

E qui vengo finalmente al punto che concerne lo spirito della riforma ma va in realtà ben oltre investendo aspetti più profondi: il maggioritario come sistema elettorale (che la riforma applicava di fatto o quasi al senato in termini persino costituzionali, in una logica unione con la quasi-maggioritaria legge Italicum alla camera) e insieme le procedere decisioniste-governiste (voto a data certa ad esempio), hanno una chiarissima doppia funzione.
A priori selezionare i governi favorendo l’ascesa delle forze più grandi e facendo a pezzi ogni minoranza prima che possa diventare domani maggioranza. A seguire, una volta favorite maggioranze che rispecchino il potere dominante, lasciarle governare senza quelle “pastoie” e lentezze, tipiche dei tempi di riflessione e conflitto parlamentari.
Al contrario il proporzionale come sistema elettorale e il sistema a vocazione parlamentarista come struttura istituzionale hanno come priorità la rappresentanza delle variegate istanze politiche e sociali che emergono nella società anche nel loro conflitto.
E’ chiaro che un proporzionale puro sconta il rischio di una maggiore instabilità dei governi, ma vi sono molti correttivi possibili per non esasperarla (sbarramento ad una soglia ragionevole ad esempio, (direi 3%), limitatissimi premi da assegnare a coalizioni se sfiorano percentuali vicine al 50% e altri possibili correttivi minori di cui si può discutere.
Resta il fatto che il proporzionale (al limite con modeste correzioni) è l’unico sistema in grado non solo di rappresentare le variegate istanze sociali, politiche e culturali che la collettività esprime nel voto, ma anche di consentire la sopravvivenza di forze minori, dove per minori non intendo forze che arrivano al 2%, ma magari al 10%, al 15% o persino al 20%.
I sistemi maggioritari (un esempio sono quelli anglosassoni) possono escludere dal governo di un paese per decenni partiti che prendono il 25% o 30% delle preferenze, i quali non avrebbero alcuna rappresentanza parlamentare.  Ragion per cui in quei sistemi si è creato il bipolarismo sistematico inscalfibile o quasi, dato che la possibilità di emersione in parlamento di partiti terzi è praticamente esclusa di fatto dal sistema elettorale.
Resta soltanto, in simili sistemi, per chi voglia apportare nuove istanze in politica, l’illusione di agire intervenendo all’interno dei due partiti forti spostandone gli equilibri, ma questa illusione non considera la maniera in cui una struttura di potere stratificato si consolida nel tempo rendendone il più delle volte impossibile un cambiamento endogeno. La storia degli Stati Uniti lo dimostra pienamente. Siamo anzi al paradosso che probabilmente il presidente più esterno al blocco di potere dominante è proprio l’impresentabile Trump (del resto a sua volta portavoce di un altro blocco di potere costellato da miliardari, non esattamente un uomo esterno al potere del denaro).

Rappresentanza e alleanze

E’ chiaro che un sistema proporzionale ispirato alla piena rappresentanza costringe alle alleanze come avvenuto in Italia nella prima Repubblica. Alleanze che, del resto, sono la logica rappresentazione della volontà collettiva. Queste alleanze possono essere fragili naturalmente ed è la ragione per cui i governi italiani hanno avuto quasi sempre vita breve fino agli anni ’90.
Tuttavia seppur brevi quei governi erano spessissimo in continuità e la caduta dell’uno non significava sempre buttare a mare gli sforzi legislativi del precedente, anzi spesso le leggi venivano elaborate con una notevole continuità. Spessissimo le variazioni della compagine governativa erano minime, dovute a piccole oscillazioni delle alleanze e non richiedevano nuove elezioni. Non si può certo affermare che l’Italia della prima repubblica non abbia prodotto una legislazione abbondante e significativa. Direi anzi che le migliori leggi che tutt’ora ci portiamo dietro sono state create in quel periodo storico così complesso e straordinario per i suoi equilibri. Le migliori trasformazioni sociali promosse dal potere legislativo ed esecutivo nel loro ordine istituzionale sono state promosse da quella pletora di governi brevi che rappresentavano le sfumature ideologiche, culturali e politiche del paese, la mediazione continua del conflitto sociale tra le classi e tra i gruppi e gli stessi equilibri geopolitici internazionali.



Non è certo la breve durata dei governi che ha costituito la debolezza dell’Italia e il suo asservimento alle potenze straniere, agli Stati Uniti in primo luogo e poi alla Germania in Europa. E’ l’esito prima della seconda guerra mondiale e poi, il lento e inesorabile prevalere, nella strisciante guerra fredda, di forze che hanno vinto la loro battaglia rappresentando il compiuto asservimento nazionale. Forze che sono definitivamente emerse, guarda caso, proprio con la seconda repubblica, quella del mito maggioritario, con la distruzione dei vecchi partiti di compromesso politico e sociale e la fine di ogni aspirazione autonoma (il cui ultimo regurgito, anche se nelle sue contraddizioni lampanti e già pesanti involuzioni sociali era stato espresso dal governo Craxi). 
Non è affatto un caso che la battaglia culturale pro-maggioritario sia stata scatenata all’inizio degli anni ’90 sotto le ali del mito della governabilità ad ogni costo come valore preminente. La maggiore (molto relativa poi) governabilità degli anni ’90 e 2000 si è risolta senz’altro in un aumento della durata media dei governi, ma non mi pare che ciò ci abbia particolarmente giovato in merito alla qualità e quantità legislativa.
Non solo, ma quando un governo dotato di piena maggioranza doveva essere rovesciato per ingerenze esterne o disaccordi interni è stato fatto senza colpo ferire anche in condizioni di alleanze pre-elettorali dotate del 50% +1 dei parlamentari. E’ accaduto al governo Berlusconi nel 1995, al governo Prodi nel 1998, al governo Prodi nel 2008 e ancora al Governo Berlusconi nel 2011. E’ stata quindi una costante anche della seconda repubblica con sistemi elettorali di tipo maggioritario ispirati alla cosiddetta governabilità. Nessun provvedimento di aumento della governabilità pensabile può rimuovere del resto l’ipotesi di rovesciamento esterno o interno di un governo.
Il rischio concreto quindi è quello di ridurre drasticamente la rappresentanza senza neanche ottenere maggiore stabilità di fatto.
Quest’ultima, d’altra parte, dipende dal grado di omogeneità del potere che di fatto amministra un paese. Sono i conflitti di potere e le diverse impostazioni che possono sorgere anche entro la compagine di un partito (come riflesso di diverse cordate di potere economico o blocchi ideologici) a determinare il grado di stabilità dei governi assai più che i sistemi elettorali in sé o i meccanismi istituzionali.

La fase storica che stiamo vivendo da 30 anni

Tutto, peraltro, va inquadrato nella fase storica che i tempi ci mostrano con chiarezza. Se non si condivide il significato della fase storica che ci troviamo a vivere è difficile trarre delle conclusioni analoghe anche sugli assetti istituzionali preferibili.
Le forze politiche ad oggi egemoni non esprimono alcun segnale di discontinuità rispetto all’opera avviata da quasi 30 anni di distruzione del benessere e dei diritti delle classi subalterne alle quali si continua a togliere il poco che resta. Né esprimono alcuna discontinuità nell’asservimento del capitalismo nazionale nel contesto europeo e rispetto alla potenza americana.
Il Partito democratico è il campione assoluto di questo progetto e la sua evoluzione degli ultimi 25 anni PCI-PDS-DS-PD è la prova lampante del preciso ruolo che gli è stato riservato e ritagliato nella vita politica del paese nella drammatica fase di trasformazione che ci ha traghettati da un sistema a prevalente economia mista al neo-liberismo.
In particolare la parabola renziana è solo l’ultimo punto di svolta di un percorso involutivo che ha portato al clamoroso riciclaggio degli ex picisti e democristiani di sinistra in blocco politico e culturale chiave della regressione sociale ed economica del paese. La lunga parentesi berlusconiana ne è stato solo un grottesco e inizialmente imprevisto diversivo.
Tutta l’impressionante staffilata di leggi che ci hanno portato allo sfacelo sociale ed economico in cui siamo oggi sono state felicemente avallate, anzi sostenute dal blocco di potere del cosiddetto “centro-sinistra” e naturalmente condivise e promosse altresì dal centro-destra berlusconiano, al servizio degli interessi del grande capitale e della finanza speculativa.
Non è successo solo in Italia. E’ una tendenza europea quella della convergenza delle vecchie forze socialiste in apparati di gestione del neo-liberalismo in apparente falsa alternanza con le forze conservatrici. E’ una vera tragedia epocale, da molti ancora non percepita con sufficiente lucidità. Una tragedia che ha portato la maggioranza degli elettori della fu sinistra comunista e socialista, ad avallare senza saperlo (o nei casi peggiori nella più lucida rassegnazione impotente e cinica) leggi antipopolari che vanno dalla distruzione del diritto del lavoro e dello Stato sociale alla fine dell’impresa pubblica e dell’economia mista; dalla deindustrializzazione alla fine di ogni seria politica di investimento pubblico; dal decadimento culturale alla devastazione della scuola classica tradizionale; dalla privatizzazione dei servizi sociali di base all’aziendalizzazione di ogni spazio sociale ed esistenziale e via continuando nella realizzazione del nuovo paradigma.
Renzi  (e questo molti antirenziani che vedono solo il suo aspetto grottesco di burattino non lo capiscono) è solo la punta dell’iceberg di un lungo e dolorosissimo processo trentennale.
E’ stato il jolly usato dalle classi dominanti per costituire un blocco neo-centrista in grado di ottenere consensi a destra e a sinistra dando soluzione a quell’instabilità esecutiva mostrata dal paese in particolare nel periodo 2006-2011 con governi troppo politici e troppo fondati su alleanze agitate.
Non dimentichiamoci i modi surreali in cui sono caduti i governi Prodi (2008) con tradimenti interni eterodiretti e il governo Berlusconi tirato giù a colpi di Spread dai suoi numerosi nemici esterni. Non perché Prodi e Berlusconi fossero buoni per l’Italia (erano entrambi pessimi), ma perché avevano, entrambi per vie diverse, provato ad incrinare lievemente alcuni piani d’azione aspirando a spazi minimi di autonomia del paese nella scena internazionale.



Poi è arrivato il celebre governo tecnico lacrime e sangue di Monti (probabilmente il peggior governo della storia della Repubblica) e infine i poteri forti, dopo le elezioni e il vacillamento del debole Letta, hanno scommesso su Renzi, questo personaggio a mio avviso notevole nella sua negatività dal punto di vista sociologico e antropologico, capace di rappresentare in modo incredibilmente sintetico il peggio della nullità culturale post-moderna in un sol colpo, riassumendo in sé il lato grottesco-popolare ereditato dal berlusconismo, il decisionismo lideristico senza contenuti, il buonismo salottiero e l’ottimismo parolaio. Un capolavoro che è riuscito ad unire forze diverse suggestionando sensibilità culturali anche opposte e creando per qualche anno un vero e proprio blocco culturale. Un blocco che, nelle speranze dei suoi artefici, avrebbe potuto costituire l’ossatura di un Partito della nazione, paladino della stabilità. Il futuro governo dell’asservimento definitivo, insomma, corretto da saltuari spasmi vani e programmaticamente vuoti di orgoglio nazionale (come i siparietti di contrasto con i poteri europei e con la Germania), il cui compito fondamentale era ricucire le ferite inflitte dall’imperialismo tedesco interno all’UE all’egemonia indiscussa degli Stati Uniti sull’Europa. Insomma Renzi, l’americano, ogni tanto doveva ringhiare contro gli eccessi di austerità perché una Germania troppo forte (e l’austerità europea è l’arma micidiale dell’orrendo neo-colonialismo tedesco) spaventa da anni gli Stati Uniti che temono di perdere la propria totale influenza sull’Europa e sui rapporti tra Europa e Russia.
Un uomo piccolo usato al servizio delle potenze dominanti come mediatore dei loro contrasti a sostanziale vantaggio della strategia americana. Questo è stato il suo ruolo iniziale.
Certo, come tutti gli uomini di servizio, è assolutamente possibile che ad un certo punto sia potuto sfuggire di mano. Gli acuiti contrasti sulla manovra di stabilità degli ultimi mesi potrebbero anche contenere del vero e non essere solo una simulazione propagandistica per mostrare falsi muscoli. Il governo italiano è indubbiamente stato protagonista di tensioni non indifferenti con l’Europa dei falchi che, oltre ad essere il mero riflesso del conflitto Germania-Stati Uniti a favore di questi ultimi, potrebbero avere avuto qualche briciolo di autenticità propria. Non è da escludere, quindi, che in molti abbiano iniziato a meditare sulla possibilità di liberarsi del loro uomo. Del resto non sarebbe stata la prima volta. Sono tanti i burattini che al momento opportuno vengono buttati via perché inutili o perché si sono montati troppo la testa.
Ma di certo la scommessa del referendum è stata un grossissimo errore imprevisto e non una manovra esterna meditata per far cadere Renzi. Se gli stessi poteri che lo hanno elevato lo avessero voluto far cadere lo avrebbero fatto in altri modi. Il referendum era nelle sue previsioni un’arma micidiale di rafforzamento, nonché un inevitabile passaggio cui dover soggiacere per far passare una riforma costituzionale non approvabile con i 2/3 del parlamento, riforma voluta da anni dalle classi dominanti, appoggiata da tutti i poteri forti internazionali, sottoscritta dalle grandi banche d’affari americane.
Certamente la vittoria del NO non rappresenta in alcun modo una sconfitta eclatante delle forze di asservimento e delle classi dominanti. La possibilità del rigetto della riforma della Costituzione era ampiamente prevista e lo scenario alternativo presumibilmente già preparato. Le borse crescono e lo spread addirittura diminuisce. Nessun panico, nessuna incrinatura dei rapporti di forza. Non mi aggiungo ai lanciatori (virtuali in questo caso) di monetine contro Renzi, l’ennesimo corifeo del potere che esce di scena. Perché altri ne verranno e perché non è ringhiando contro l’immagine di un singolo che si inquadrano gli eventi. L’antirenzismo ha rischiato in molti ambienti di divenire il nuovo antiberlusconismo, ovvero il rovesciamento logico dell’impostazione personalistica e lideristica che renzismo e berlusconismo hanno imposto. Niente urla sguaiate per la fine dell’ennesimo buffone di corte, così come non era il caso di urlare nel 2011 dopo la caduta di Berlusconi e nel 2008 dopo la caduta di Prodi.
Solo cauta soddisfazione per il fallimento del tentativo notevole di cambiamento della Costituzione in senso pro-esecutivo teso ad affermare il dominio dei cosiddetti governi affidabili e proni alle direttive dei poteri predominanti.
E’ stato sventato un attacco alla Costituzione, in continuità con altri passaggi decisivi di cui si è parlato troppo poco (ad esempio la clamorosa modifica dell’articolo 81 nel 2012 in merito al vincolo di pareggio di bilancio), del tutto funzionale a proseguire il processo demolitivo avviato trent’anni orsono della sostanza dei rapporti sociali.
In questa fase storica al momento è solo possibile resistere, colpo su colpo ad ogni attacco sferrato. E nel mentre costruire l’alternativa per il futuro senza l’isteria dettata dai tempi elettorali e dal breve periodo, dominato dal ricatto, dalla paura dal menopeggismo radicale.
Resistere per costruire forze capaci domani di creare egemonia culturale e politica.
Oggi lo spazio di pseudo-opposizione al blocco di potere dominante è occupato dai cosiddetti populismi (termine tra i più inefficaci, generici e ideologici usati dalla politologia degli ultimi 200 anni) volutamente indicati come un blocco unico per darne una rappresentazione inquietante e indistinta cui contrapporre il buon senso degli uomini della governance tecnocratica.
E’ chiaro che questi melliflui cosiddetti populismi non sono il problema, ma la falsa errata, ingannevole e a volte senza dubbio inquietante, soluzione al problema, o ancora meglio il depistaggio alle alternative vere che potrebbero nascere un domani.
La vicenda del movimento 5stelle, i populisti post-moderni, che di certo non rappresentano il nemico principale, ma la destrutturata, liquida, contraddittoria e a tratti grottesca reazione al nemico principale, insegna una cosa: che esiste una base elettorale inquieta che è stata capace, dopo anni di ricatti, di liberarsi dallo spettro del bipolarismo ideologico (votami perché se no c’è Berlusconi, votami perché se no ci sono i comunisti, votami perché se no c’è Salvini e così via per 20 anni di manipolazioni ideologiche infondate). Questo è stato un grande risultato. Il problema è che la forza collettrice è non solo di una vacuità impressionante, ma è ad altissimo rischio di manipolazione esterna (proprio per la sua totale inconsistenza e confusione). Del resto non è un caso che il sistema mediatico prima di attaccare i 5stelle quando si erano già rafforzati ne ha liberamente permesso il rafforzamento sovraesponendoli nei media nel periodo pre-ascesa. L’impressione netta è che essi siano il diversivo perfetto per comprimere altre alternative più sostanziali incanalando il disagio su binari morti.
Non credo che il potere egemone scommetterà realmente mai su di loro come forza trainante di governo. Certo alcuni personaggi del movimento, in particolare, rivelano tratti inquietanti e lasciano intravedere questa remota possibilità e deriva che potrebbe essere usata residualmente. Il loro programma è contraddittorio, pieno di elementi ragionevoli e condivisibili alternati a visioni confuse, ideologia a buon mercato e alcune idee totalmente sbagliate così simili alle stesse proposte dal blocco di potere dominante.
Penso tuttavia che la carta dei 5 stelle se mai verrà giocata lo sarà solo in extremis, non è certo la principale e in ogni caso avrebbe un valore di pura destabilizzazione di brevissimo periodo, seguita immediatamente da un nuovo governo più istituzionale. Insomma un diversivo caotico, innocuo presto reintegrabile dall’ordine costituito. Tutto fuorché lo spauracchio da cui doversi difendere in via prioritaria.
Poi ci sono i cosiddetti populismi di destra, quelli più beceri, razzisti, brutali, che cavalcano i peggiori sentimenti, fomentano la guerra tra poveri e parlano di temi rilevanti (sovranità nazionale, critica alla UE) riempendoli di contenuti reazionari. Lo spauracchio del rafforzamento di questi movimenti è chiaramente una delle armi più affilate usate dalla propaganda del blocco di potere egemone per attirare consensi sull’onda della paura dei barbari. E’ probabilmente, insieme alla propaganda del giudizio dei mercati finanziari e dello spread, l’argomento più forte che permette di rafforzare per contrasto il potere costituito.
Non va certo sottovalutato il pericolo di involuzioni reazionarie, peraltro del tutto interne allo stesso sistema di potere da cui dichiarano di differenziarsi, ma non può essere di certo la scusa per appoggiare come rimedio le forze politiche dominanti. Tanto più che, come chiaro dagli eventi degli ultimi anni, l’influenza delle destre reazionarie è tanto più forte quanto più si consolidano le politiche antipopolari, la crisi economica, la povertà, l’immigrazione scatenata dalla riduzione in miseria di vaste aree del mondo. Tutte circostanze aggravate proprio dall’azione politica dei partiti che reclamano il nostro consenso per allontanare il rischio dei populismi. Ed è parimenti vero che i rischi di populismo reazionario aumentano proporzionalmente all’assenza di forze popolari e sociali che, fuori da settarismi ideologici radical chic ed estremistici, raccolgano il consenso delle classi subalterne parlando di problemi reali e non di amenità di nicchia. Pertanto, anziché gridare ai populismi genericamente intesi rifugiandosi nelle braccia della governance tecnocratica, bisognerebbe invece contrastare i cattivi populismi reazionari (destra) o i populismi post-moderni liquidi (movimento 5stelle) con buoni populismi emancipativi e sociali (se per populismo in generale intendiamo la capacità di portare al popolo, alla maggioranza argomenti forti diretti e comprensibili). Solo in questo modo si può entrare nel vivo delle contraddizioni sociali di questa epoca sfuggendo all’eterno ricatto insostenibile tra Renzi e Salvini, Clinton e Trump, Hollande e LePen e via dicendo. 
D’altro canto la reazione al blocco di potere dominante e ai cattivi “populismi” (dalla vacuità totale del movimento 5stelle alle destre becere) non può certo essere l’ennesima riedizione di improbabili centro-sinistra ventilati da personaggi fino ad oggi pienamente interni alla gestione del nuovo paradigma neo-liberale e delle politiche di austerità (Pisapia, Vendola, Fassina et similia). Di ruoli subalterni di sinistre usate come stampelle delle politiche dominanti, al limite con qualche variazione sul tema in ambito di diritti civili, credo se ne abbia abbastanza.
C’è invece bisogno di forze in grado di esprimere, fuori da ogni subalternità e con determinazione, un concreto cambiamento di paradigma, di mettere in discussione radicale i trattati europei che impongono in modo inevitabile politiche di austerità, recessione, impoverimento, disoccupazione di massa e redistribuzione regressiva del reddito dai poveri ai ricchi. Forze in grado di ripensare ad un ruolo attivo dello Stato in forma dirigista nell’economia come produttore di servizi e garante del pieno impiego. Forze in grado di ripensare radicalmente il paradigma di economia aperta, il mito mendace della globalizzazione che altro non è che il paravento per nascondere il predominio dei paesi forti sui più deboli, adottando linee di sviluppo endogeno protezionistico in un’ottica di paritaria cooperazione internazionale solidale, condanna radicale della guerra e dell’imperialismo. Forze in grado, in ultima istanza, di rimettere al centro del pensiero la sovranità dei processi politici e delle relazioni sociali ed etiche sul sistema economico e sulla distribuzione della ricchezza. Non limitandosi a redistribuzioni ex-post dei residui dell’accumulazione privata, ma ridiscutendo i modi e le relazioni produttive e di proprietà.
Un simile cambiamento di paradigma, che non è certo il socialismo, ma solo un avvicinamento ad ipotesi relativamente caute di economia mista a forte direzione pubblica (le stesse peraltro che hanno prevalso per 30 anni in Europa nel secondo dopoguerra) necessita di energie che faticheranno molto a ritagliarsi spazi e dovranno lottare per anni per ottenere una qualche egemonia culturale possibile in futuro. Un percorso che prima o poi dovrà iniziare e che qualcuno faticosamente sta iniziando a maturare.

Il nesso tra struttura istituzionale, egemonia e fase storica

Chiarita la fase e chiariti i contorni di un auspicabile cambiamento, torniamo, per concludere, al rapporto tra governabilità, rappresentanza e fase storica.
La governabilità in sé priva di analisi dei suoi contenuti, in opposizione alla rappresentanza non può essere certo un valore in sé.
E tutto ciò, ripeto, non per un amore incondizionato di questa democrazia procedurale rappresentativa in quanto tale. Questa democrazia è evidentemente marcia fino al midollo. La stragrande maggioranza delle persone vota senza avere una chiara informazione, più per immagine e suggestione. Non solo i “rozzi votanti” dei vari cosiddetti “partiti populisti”, ma tutti i votanti, a partire, da chi crede di votare a sinistra e vota partiti di destra liberista che solo 30 anni fa sarebbero stati considerati più a destra della destra conservatrice ottocentesca. E’ una vera catastrofe, frutto naturale della manipolazione mediatica, della distanza tra realtà e immagine della realtà, della distanza gigantesca tra noi e le leve del potere fondamentali (ben più elevata oggi che 50 o persino 100 anni fa),  del fallimento dei progetti emancipativi di 30-40 anni fa e della cultura post-moderna della disillusione che si trasforma in accettazione dell’inevitabilità della tecnocrazia post-politica.
Non è quindi la democrazia rappresentativa il feticcio che custodisce chissà quale meravigliosa rappresentanza della verità delle opinioni.
Semplicemente la rappresentanza va difesa come possibile luogo residuale di resistenza del conflitto e della contraddizione e come unico appiglio per non scomparire quando si arriverà al punto in cui sarà possibile incidere sulle dinamiche del potere.
Del resto oggi, in questo contesto, dati gli attuali rapporti di forza, è solo possibile immaginare una resistenza attiva che diventi un domani una forza capace di entrare nell’arena della lotta politica.
Chi immagina cambiamenti forti del corso delle cose, ha solo la possibilità e la speranza di porre le fondamenta per qualcosa che verrà che possa sorgere da una direzione politica delle principali contraddizioni sociali in atto. All’inizio sarà qualcosa di piccolo che dovrà semplicemente avere la forza di sopravvivere e non essere spazzata via nel momento in cui vorrà entrare in contraddizione con il potere dominante. Poi con il tempo potrà aspirare all’egemonia (ma si tratta di un orizzonte di molti anni). Nel frattempo, occorre arginare i danni, difendere contingentemente il poco di buono che resta, salvare gli ultimi diritti, stare nelle lotte sociali dove possibile, lavorare su un piano culturale e poi politico in un’ottica di lungo periodo e augurarsi che il progetto egemonico di annichilimento delle classi subalterne subisca contraccolpi e che non riesca per ora ad affondare la mano in modo definitivo.
Rafforzare oggi l’esecutivo, difendere principi assoluti e decontestualizzati di governabilità, significa spianare la strada ai demolitori. Significa soprattutto contribuire a creare il contesto istituzionale fatto appositamente per impedire sul nascere l’emersione di forze politiche nuove realmente alternative da qui al futuro.
Semmai una forza dovesse nascere e svilupparsi come alternativa reale, una forza ben diversa da un movimento 5stelle trainato dai media entro i limiti della loro relativa ridottissima pericolosità per il potere costituito, tarderebbe anni a creare egemonia culturale per la difficoltà di diffondere un messaggio in spazi mediatici ristretti e contro una propaganda di forza soverchiante. E se quella forza arrivasse mai ad ottenere il 7-8-10 o 15% deve poter esistere per arrivare nel corso del tempo a costruire egemonia.
Specie in un’ottica di resistenza minoritaria (per ora e per i prossimi anni almeno) che tuttavia non rinunci totalmente all’azione istituzionale ripiegando nella pura testimonianza sterile o percorrendo vie diverse, è esattamente la rappresentanza che va difesa come obiettivo prioritario, condizione irrinunciabile di sopravvivenza di un’alternativa e di una speranza.



Vi è poi un tema di fondo che va al di là delle contingenze e dei rapporti di forza attuali. Ipotizziamo pure che una forza il cui programma va nella direzione che auspico dovesse acquisire una egemonia capace di portarla al 30-35% dei consensi tra qualche anno. Sempre all’interno di una transizione graduale verso cambiamenti anche profondi della società e dei rapporti di produzione (mettendo da parte per ipotesi rivolgimenti di carattere extra-parlamentare) continuerei a ritenere comunque che il sistema elettorale migliore sia quello proporzionale. Una volta che si accetta infatti il piano del convincimento istituzionale e democratico non si può non passare per l’ottenimento di una maggioranza effettiva nella società alla luce del fedele rispecchiamento delle volontà collettive. Tanto più ciò è necessario se si vogliono realizzare programmi di cambiamento radicali e profondi. Come poterli realizzare senza almeno il 50% +1 dei consensi espressi? Molto meglio, anzi sarebbe un 60-70-80% come dovrebbe essere per passaggi epocali di transizione. Ma almeno il 50% +1 è la precondizione per scampare guerre civili, rivolgimenti violenti e vanità dei percorsi di cambiamento.
Credo che in un sistema con democrazia formale sia questa la strada più consigliata dalla prudenza e dalla giustizia.
Se stiamo alla democrazia formale (finché ci si vuol stare ovviamente), per quanto falsa, putrida, manipolata, mediata dal denaro, se ne devono accettare le regole. Occorre stare al gioco e lottare con i mezzi possibili per creare egemonia fintanto che avremo la possibilità materiale di farlo.
Tanto in fase di resistenza (oggi) quanto in futuribili e per nulla probabili fasi di egemonia futura (domani), solo una rappresentanza di tutte le forze in gioco può offrire la possibilità di cambiamenti concreti che abbiano una durata storica.
Come già ho detto, in termini legislativi, il meglio che è stato fatto in Italia negli ultimi 150 anni è stato realizzato nel periodo 1960-1980. Molti governi, forse instabili, ma coalizioni forti nel contenuto, leggi che andavano spesso nella direzione di un’emancipazione delle classi subalterne, sostanziali cambiamenti sociali epocali promossi dalla faticosa azione combinata dei partiti di massa, virtuosi equilibri impensabili senza l’azione combinata dei comunisti dei socialisti e della parte meno atlantista e più nazionale della democrazia cristiana.
Con un maggioritario e un’impostazione governista avremmo avuto un paese senza dubbio più governabile ma con l’80% dei governi a guida DC, dove sarebbe emersa ovviamente la parte peggiore della DC, quella americanista, anticomunista e mafiosa, senza contrappesi.
E invece il proporzionale catturava quello straordinario (forse irripetibile) equilibrio che era l’immagine (seppur sbiadita e manipolata) di grandi confronti ideali che investivano non solo le politiche economiche, ma tutti gli aspetti della vita pubblica. Senza proporzionale dibattiti complessi come quelli sul divorzio e l’aborto con posizioni così delicate e sfumate entro i partiti di massa non sarebbero stati neanche pensabili. Si sarebbero avute alternativamente posizioni conservatrici o radicali-libertarie.
Senza proporzionale non avremmo mai avuto le partecipazioni statali e le nazionalizzazioni, ma capitalismo privato arraffone da un lato e propaganda iperstatalista ineffettuale dal lato opposto.
Senza il proporzionale non avremmo avuto lo Stato sociale e diritti del lavoro conquistati da dure lotte dalle due generazioni che ci hanno preceduto, ma avremmo avuto repressione da un lato e reclusione dell’opposizione sociale in canali puramente extra-istituzionali.
E tanti altri esempi si potrebbero fare di risultati complessi e fecondi, di compromesso, ottenuti grazie alla rappresentanza della pluralità.
Specie in un paese come l’Italia segnato (per fortuna) ancora oggi da contrapposizioni spesso trasversali a logiche bipolariste soffocanti estranee alla nostra cultura, il proporzionale e la centralità del parlamento, è l’unico modo per preservare la dialettica e la ricchezza delle infinite particolarità, per non finire schiacciati nel tritacarne (in cui siamo finiti negli anni ’90) dell’americanizzazione della politica preservando anche per questa via un briciolo di indipendenza nazionale.


Conclusioni 

Imporre nell’ordine di priorità di un quadro istituzionale a democrazia parlamentare la rappresentanza, non significa ignorare il problema dell’esigenza di governare. La governabilità intesa come possibilità di governare e non come dittatura di una maggioranza relativa, è naturalmente una condizione necessaria per l’azione e il mutamento. Certamente il parlamentarismo non può ridursi alla discussione fine a sé stessa, né a luogo di scontro inefficace.
Ma quando ciò accade, è il sintomo di uno stallo ed equilibrio nei rapporti di forza e di una responsabilità delle forze politiche nel non saper superare lo stallo. L’arma ricattatoria dei piccolissimi partiti è certamente un problema, in parte superabile prevedendo soglie di sbarramento minime. Tuttavia in linea di massima laddove i partiti politici lo vogliano, un sistema proporzionale e forti garanzie dell’azione parlamentare in sede di discussione delle leggi, possono dare luogo a governi capaci di legiferare anche in modo massiccio e coerente, come dimostrano numerosi casi storici e presenti.
La rappresentanza produce l’effettività di quel pluralismo che può dare luogo ad una migliore governabilità. Riduce il rischio di fuga verso un bipolarismo che comprime le differenze, che spezza le ali dello spettro parlamentare e che impone la convergenza verso il centro, frustrando così la possibilità di una vera governabilità trasformativa e di contenuto.
Al contrario, l’imposizione di principi di governabilità ispirati da logiche maggioritarie o da riduzione eccessiva dei tempi parlamentari di discussione si traducono in preservazione delle logiche di potere esistenti e dello status quo, che si autoperpetuano all’infinito con la sola forza di convincimento di una maggioranza relativa dell’elettorato che potrebbe anche essere limitata ad un solo 25% in caso di forte diffusione del voto tra molteplici partiti.
Una logica maggioritaria che peraltro non produce necessariamente stabilità dei governi qualora permangano conflitti di potere sottostanti che dovranno per forza di cose esprimersi all’interno dei partiti.
 D’altra parte, la facile governabilità e la stabilità dei governi sono il portato di situazioni in cui il blocco di potere che sostiene un governo, indipendentemente dalla pluralità o meno di partiti implicati, è omogeneo e viaggia verso direzioni univoche (nel bene o nel male ovviamente a seconda dei contenuti espressi).
 Non è quindi la forma istituzionale in sé a fornire stabilità ai governi (come chiarissimo dalle vicende della seconda Repubblica in Italia), ma il raggiungimento di una forte convergenza (positiva o negativa che sia) sulle strade da intraprendere e gli interessi da difendere in una società stratificata.

La traslazione verso forme di selezione maggioritaria e di esecutivo forte sul piano dei poteri istituzionali ha quindi come esito principale non la stabilizzazione dei governi, ma il distacco tra potere e cittadini, la perdita di rappresentanza e l’esclusione sistematica di forze di alternativa sul nascere. In sostanza la difesa del potere costituito al tempo presente.














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