di Lorenzo Dorato
Finalmente da qualche settimana si parla anche in Italia in
modo più cosciente, limitatamente, sia chiaro, ai canali informativi più di
nicchia, del TTIP: il Transatlantic Trade and Investment Partnership,
trattato di libero commercio in via di sottoscrizione tra Unione europea e
Stati Uniti.
A grandi linee e al netto delle valutazioni quantitative
specifiche, lo spirito, le intenzioni e gli obiettivi che muovono il trattato,
nonché i suoi effetti distributivi sono evidenti, prevedibili e di grave portata.
Il trattato è un tassello molto rilevante di quel vasto
processo di apertura indiscriminata delle economie nazionali agli scambi con
l’estero avvenuto negli ultimi 30-40 anni. Per capirne la portata e le conseguenze vale dunque la pena
ripercorrere brevemente la storia e la logica di tale processo.
A partire dagli anni ’70 e ’80 del ‘900 in gran parte delle
aree del mondo si è realizzata una progressiva liberalizzazione dei movimenti
di merci e capitali che ha privato gli Stati della sovranità sostanziale,
ovvero della capacità di incidere in modo effettivo sui processi economici
fondamentali interni ad un paese: la distribuzione del reddito, il sentiero di
sviluppo economico e industriale prescelto, la tutela dei diritti del lavoro,
dell’ambiente e del paesaggio, la scelta di un sistema tributario ritenuto equo,
la difesa di principi etici considerati inviolabili. In sostanza, l’apertura
indiscriminata agli scambi con l’estero mette a repentaglio, in nome della
libertà economica, la libertà di uno Stato, ovvero di una collettività, di
stabilire quali debbano essere i limiti alla libertà economica individuale al
fine di tutelare valori ritenuti superiori: la giustizia sociale, l’uguaglianza
sostanziale, la deontologia professionale, la dignità della persona, l’etica
pubblica.
In un’economia aperta si innescano infatti quei noti
fenomeni di concorrenza al ribasso sui diritti sociali, sulle aliquote fiscali,
sulla tutela della qualità dei prodotti e sulle norme di regolamentazione dei
mercati, dovuti all’insostenibile concorrenza tra merci prodotte in contesti
normativi differenti (conseguenza della liberalizzazione dei movimenti di
merci) e al permanente ricatto della delocalizzazione produttiva da parte delle
imprese (conseguenza della liberalizzazione dei movimenti di capitale).
All’interno dell’area UE, l’integrale liberalizzazione dei
movimenti di merci e capitali (avvenuta tra il 1968 e il 1988), ha già prodotto
da anni (specie in un’Europa eterogena qual è quella a 27 paesi realizzata a
partire dall’inizio del nuovo secolo) una spaventosa concorrenza al ribasso sui
costi sociale della produzione (diritti e norme di regolamentazione). Le
conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: massiccia delocalizzazione di
attività economiche in paesi a fiscalità privilegiata e con bassi salari e
spinta verso l’allentamento delle normative salariali e di regolamentazione nei
paesi a più alte tutele.
Contemporaneamente un processo di liberalizzazione tra
l’area UE e i paesi terzi sta svolgendo esattamente la stessa funzione:
indebolire la sovranità degli Stati sui processi economici e innescare una
corsa al ribasso sui diritti sociali e sui vincoli posti al funzionamento del
mercato.
Si faccia attenzione: il libero scambio non esautora la
sovranità degli Stati in modo uniforme. Accentua invece la gerarchia del potere
sovrano tra Stati economicamente forti e dominanti e Stati economicamente meno
forti. La cosiddetta “globalizzazione dei mercati” non è un processo neutrale e
diffuso in cui il mercato vince contro gli Stati nella loro generalità e
l’economia esautora la politica dal proprio ruolo decisionale. La
globalizzazione, o meglio dire l’integrale liberalizzazione degli scambi con
l’estero, erode selettivamente le sovranità economiche accentuando le
disuguaglianze internazionali e concentrando negli Stati che ne controllano e
guidano il processo il potere economico a danno degli anelli più deboli.
Come egregiamente spiegato da diversi storici dell’economica
(in particolare è illuminante l’analisi di Giovanni Arrighi sui cicli sistemici
di accumulazione capitalistica) le formazioni statali che hanno nei secoli
dominato i lunghi cicli di accumulazione
(dall’Olanda del ‘600 alla Gran Bretagna del ‘700-‘800 fino agli Stati Uniti
dal 1918 ad oggi), hanno da sempre attuato politiche protezionistiche nella
fase della propria industrializzazione nascente e del proprio sviluppo endogeno
per poi imporre, una volta raggiunta una solida posizione predominante, la norma
del libero scambio al resto del mondo.
Il libero-scambismo, pertanto, oltre ad essere, in quanto
generalizzazione “internazionale” del liberismo economico, l’ideologia
dell’esautorazione della politica a vantaggio dei processi economici globali
anonimi, nei fatti è un duplice micidiale strumento di dominio: da un lato è il
mezzo con cui la formazione economica dominante, attorno a cui ruotano gli
interessi capitalistici più solidi, indebolisce il potenziale concorrente e
soggioga le economie deboli in via di sviluppo; dall’altro è il mezzo con cui
gli interessi capitalistici, all’interno di tutti gli Stati interessati dal processo, riescono ad imporsi contro la resistenza dei lavoratori (ricatto della
delocalizzazione e oggettiva insostenibilità della concorrenza di merci
prodotte in condizioni normative troppo differenziate).
Il libero scambio è quindi simultaneamente un potente mezzo
della lotta di classe mossa dal capitale contro il lavoro e del conflitto tra
capitali più forti e capitali più deboli.
il libero-scambismo ha infine una conseguenza culturale e
politica di vasta portata.
In un contesto di economia indiscriminatamente aperta
l’effettività delle opzioni politiche democraticamente discusse e proposte dai
cittadini si restringe drammaticamente. Le opzioni non liberiste, o persino le
opzioni soltanto moderatamente liberiste, tese a porre dei limiti alla libertà
economica individuale, diventano infatti prive di effettività in quanto
contraddette da vincoli apparentemente oggettive che le rendono di fatto
impraticabili. Ciò conduce inevitabilmente ad un senso di impotenza e
frustrazione politica e sindacale che incrementa, per una sorta di processo di
autolimitazione indotta, la forza stessa del vincolo esterno.
Una delle ragioni dell’evidente fallimento delle opzioni
critiche dell’attuale capitalismo nel panorama politica europeo degli ultimi 20
ani è dovuta proprio alla difficoltà che nel corso degli anni ’90 e 2000 molte
forze politiche hanno riscontrato nel criticare prioritariamente e senza
compromessi la norma del libero-scambio internazionale e i processi di
integrazione dei mercati a partire proprio dalla stessa formazione dell’Unione
europea.
Ebbene, fatte queste premesse generali di contesto, passiamo ad una breve analisi del TTIP.
Il Trattato si inscrive perfettamente nella logica generale
appena richiamata rafforzandola e portandola all’esasperazione.
Il TTIP a grandi linee prevede due vaste aree di intervento.
In primo luogo mira all’abbattimento pressoché totale (con alcune eccezioni che si stanno discutendo nel processo di contrattazione) delle barriere tariffarie e soprattutto non tariffarie tra Stati Uniti ed Unione europea, ovvero quelle barriere che includono contingentamenti delle importazioni e vincoli sulla qualità dei prodotti importabili).
In secondo luogo prevede meccanismi per cui le grandi imprese multinazionali possono citare in giudizio uno Stato per danni economici in tutti i casi in cui ritengano che l’azione pubblica abbia leso i propri diritti magari semplicemente per una diminuzione del livello dei profitti dovuta all’approvazione di qualche normativa di pubblico interesse. Il giudizio suddetto sarebbe vagliato da un collegio arbitrale privato estraneo alla giustizia ordinaria.
In primo luogo mira all’abbattimento pressoché totale (con alcune eccezioni che si stanno discutendo nel processo di contrattazione) delle barriere tariffarie e soprattutto non tariffarie tra Stati Uniti ed Unione europea, ovvero quelle barriere che includono contingentamenti delle importazioni e vincoli sulla qualità dei prodotti importabili).
In secondo luogo prevede meccanismi per cui le grandi imprese multinazionali possono citare in giudizio uno Stato per danni economici in tutti i casi in cui ritengano che l’azione pubblica abbia leso i propri diritti magari semplicemente per una diminuzione del livello dei profitti dovuta all’approvazione di qualche normativa di pubblico interesse. Il giudizio suddetto sarebbe vagliato da un collegio arbitrale privato estraneo alla giustizia ordinaria.
Entrambe le misure conducono a numerose conseguenze di
estrema gravità.
In primo luogo, coerentemente con i principi del libero
scambio, conducono ad una competizione al ribasso sulle componenti di costo
sociali, ambientali e di regolamentazione, mettendo in crisi le economie dei
paesi europei che hanno livelli di regolamentazione dei mercati mediamente
assai più elevati rispetto a quelli vigenti negli Stati Uniti. Ciò potrebbe
riguardare le normative relative alla qualità dei prodotti (presenza di
prodotti agricoli OGM e di trattamenti ormonali delle carni ad esempio), il
rispetto dei diritti del lavoro (gli USA non hanno mai sottoscritto alcune
raccomandazioni e convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro),
il rispetto dell’ambiente (la regolamentazione nord-americana è mediamente
assai più permissiva di quella europea).
Inoltre, in assenza di accordi chiari sulla trasparenza
informativa relativa ai prodotti esportati (ancora non è emerso se si riuscirà
a trovare dei punti di compromesso su questo aspetto) non soltanto entreranno
massicciamente sul mercato europeo prodotti di qualità inferiore (ciò è
flagrante per il cibo), ma sarà altresì ridotta la possibilità di
un’informazione chiara sulle caratteristiche dei prodotti venduti.
Le conseguenze economiche di questa tendenza sono chiare: le
merci nord-americane risulteranno più competitive mettendo in crisi la
produzione europea, provocando (come alcuni studi ritengono realistico) un
aumento della disoccupazione nei settori più esposti alla concorrenza USA e
spingendo i governi europei ad una maggiore deregolamentazione dei mercati per
riallinearsi alle esigenze di competitività.
A tutto discapito dunque dei cittadini e dei lavoratori.
Per quanto riguarda invece la possibilità di citazione in
giudizio degli Stati da parte delle multinazionali, ci troviamo di fronte ad
una misura di profonda gravità che darebbe luogo a quella definitiva
sottomissione della società intera nel suo insieme ad interessi economici di
piccole oligarchie capaci di determinare la vita di milioni di persone. Di che
si tratta? Una società nord-americana che investe in un paese europeo sarebbe
garantita da eventuali danni ricevuti per via di una qualsivoglia azione
legislativa promossa da uno Stato europeo che si dimostri aver determinato un
pregiudizio economico all’impresa. Se uno Stato ad esempio volesse modificare
la propria legislazione ambientale in senso maggiormente protettivo o elevare
gli standard di protezione del lavoro si troverebbe a dover rimborsare la
società multinazionale che sta subendo una riduzione dei profitti. O ancora se
uno Stato volesse ri-nazionalizzare o un ente locale ri-municipalizzare un
settore produttivo precedentemente privatizzato si troverebbe a dover
fronteggiare non solo le classiche spese di rimborso da esproprio, ma anche i
danni economici aggiuntivi causati alle società che operano in quel settore.
La sottomissione ad arbitrati internazionali privati
estranei alla legge ordinaria non è una novità assoluta e già conosce casi
celebri (come la citazione in giudizio dello Slovacchia da parte di una
Multinazionale olandese di assicurazione sanitarie Achmea per aver
rinazionalizzato il servizio precedentemente privatizzato). Tuttavia nel TTIP
questa logica sovranazionale verrebbe accentuata e ulteriormente garantita nei
rapporti tra multinazionali nord-americane e Stati europei.
Di fatto questa misura avrebbe come esito quello di
condizionare pesantemente la libera azione degli Stati, blindando i processi di
liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici e impedendo eventuali
progressi nella legislazione sul lavoro ambientale e di regolamentazione dei
mercati.
L’insieme di questi provvedimenti comporterebbe dunque
un’ulteriore drastica limitazione di fatto della capacità degli Stati (già
compromessa dall’adesione ai trattati UE) di intervenire in settori rilevanti
del proprio sistema economico.
Un ulteriore elemento di preoccupazione è l’elevato valore
geopolitico rivestito dal TTIP, tentativo statunitense di rafforzare il
controllo dei paesi europei, ciliegina sulla torta del conflitto che oppone gli
USA alle economie emergenti costituite dai cosiddetti BRICS. Dinamica ben
spiegata in questo articolo http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=125810
Infine ad ulteriore lampante conferma del fatto che non
esistono interessi condivisi e coesi (neanche capitalistici) tra Stati europei,
va rimarcato il fatto che il processo di contrattazione, segreto e chiuso al
dibattito pubblico, è stato prevalentemente gestito dalla Germania che ha cercato
di tutelare i propri specifici interessi cercando di far ricadere le maggiori
conseguenze negative del trattato di libero scambio sugli altri paesi, come ben
spiegato in questo articolo di due anni fa: http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2014/3/2/GEO-FINANZA-Il-trattato-segreto-che-mette-in-palio-Europa-e-Italia/473929/
In definitiva, l’adesione al TTIP rivela ancora una volta la
natura tecnocratica, classista e asimmetrica dell’Unione europea, creazione
istituzionale che, senza dare luogo ad alcuna forma di sovranità politica
superiore e partecipata, ha sottratto agli Stati la propria capacità di
incidere sul sistema economico promuovendo con pervicace insistenza un
paradigma di politica economica ultra-liberista che ha dato vita ad uno dei
processi più clamorosi di redistribuzione regressiva del reddito (dai poveri ai
ricchi) mai verificatosi nella storia recente.
Con il TTIP e con tutti i trattati di libero-scambio
internazionali promossi dalla UE ciò che già è stato compiuto all’interno
dell’Europa, ovvero la totale integrazione economica in assenza di integrazione
politica, si generalizza ai rapporti con gli Stati terzi, in questo caso gli
Stati Uniti, incrementando il ruolo di subordinazione dell’Europa a questi
ultimi e alimentando i meccanismi economici e sociali perversi tipici di
un’area di libero scambio con l’aggravante di esplicite previsioni di
soggezione dirette degli Stati (meccanismi di giustizia sovra-nazionale) alla
volontà di profitto delle multinazionali.
Tutte ragioni che invitano caldamente a prendere coscienza
della gravità del trattato discusso e della necessità di far sentire voci
dissenzienti.
Una buona occasione per farlo è la manifestazione promossa a
Roma Sabato 7 Maggio dal Comitato NO TTIP.
https://stop-ttip-italia.net/7-maggio/
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