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mercoledì 4 maggio 2016

TTIP e liberoscambismo. Considerazioni sulla sovranità economica e il conflitto sociale in un contesto di economia aperta



di Lorenzo Dorato

Finalmente da qualche settimana si parla anche in Italia in modo più cosciente, limitatamente, sia chiaro, ai canali informativi più di nicchia, del TTIP: il Transatlantic Trade and Investment Partnership, trattato di libero commercio in via di sottoscrizione tra Unione europea e Stati Uniti.
A grandi linee e al netto delle valutazioni quantitative specifiche, lo spirito, le intenzioni e gli obiettivi che muovono il trattato, nonché i suoi effetti distributivi sono evidenti, prevedibili e di grave portata.
Il trattato è un tassello molto rilevante di quel vasto processo di apertura indiscriminata delle economie nazionali agli scambi con l’estero avvenuto negli ultimi 30-40 anni. Per capirne la portata e le conseguenze vale dunque la pena ripercorrere brevemente la storia e la logica di tale processo.


A partire dagli anni ’70 e ’80 del ‘900 in gran parte delle aree del mondo si è realizzata una progressiva liberalizzazione dei movimenti di merci e capitali che ha privato gli Stati della sovranità sostanziale, ovvero della capacità di incidere in modo effettivo sui processi economici fondamentali interni ad un paese: la distribuzione del reddito, il sentiero di sviluppo economico e industriale prescelto, la tutela dei diritti del lavoro, dell’ambiente e del paesaggio, la scelta di un sistema tributario ritenuto equo, la difesa di principi etici considerati inviolabili. In sostanza, l’apertura indiscriminata agli scambi con l’estero mette a repentaglio, in nome della libertà economica, la libertà di uno Stato, ovvero di una collettività, di stabilire quali debbano essere i limiti alla libertà economica individuale al fine di tutelare valori ritenuti superiori: la giustizia sociale, l’uguaglianza sostanziale, la deontologia professionale, la dignità della persona, l’etica pubblica.
In un’economia aperta si innescano infatti quei noti fenomeni di concorrenza al ribasso sui diritti sociali, sulle aliquote fiscali, sulla tutela della qualità dei prodotti e sulle norme di regolamentazione dei mercati, dovuti all’insostenibile concorrenza tra merci prodotte in contesti normativi differenti (conseguenza della liberalizzazione dei movimenti di merci) e al permanente ricatto della delocalizzazione produttiva da parte delle imprese (conseguenza della liberalizzazione dei movimenti di capitale).

All’interno dell’area UE, l’integrale liberalizzazione dei movimenti di merci e capitali (avvenuta tra il 1968 e il 1988), ha già prodotto da anni (specie in un’Europa eterogena qual è quella a 27 paesi realizzata a partire dall’inizio del nuovo secolo) una spaventosa concorrenza al ribasso sui costi sociale della produzione (diritti e norme di regolamentazione). Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: massiccia delocalizzazione di attività economiche in paesi a fiscalità privilegiata e con bassi salari e spinta verso l’allentamento delle normative salariali e di regolamentazione nei paesi a più alte tutele.
Contemporaneamente un processo di liberalizzazione tra l’area UE e i paesi terzi sta svolgendo esattamente la stessa funzione: indebolire la sovranità degli Stati sui processi economici e innescare una corsa al ribasso sui diritti sociali e sui vincoli posti al funzionamento del mercato.

Si faccia attenzione: il libero scambio non esautora la sovranità degli Stati in modo uniforme. Accentua invece la gerarchia del potere sovrano tra Stati economicamente forti e dominanti e Stati economicamente meno forti. La cosiddetta “globalizzazione dei mercati” non è un processo neutrale e diffuso in cui il mercato vince contro gli Stati nella loro generalità e l’economia esautora la politica dal proprio ruolo decisionale. La globalizzazione, o meglio dire l’integrale liberalizzazione degli scambi con l’estero, erode selettivamente le sovranità economiche accentuando le disuguaglianze internazionali e concentrando negli Stati che ne controllano e guidano il processo il potere economico a danno degli anelli più deboli.
Come egregiamente spiegato da diversi storici dell’economica (in particolare è illuminante l’analisi di Giovanni Arrighi sui cicli sistemici di accumulazione capitalistica) le formazioni statali che hanno nei secoli dominato i lunghi cicli  di accumulazione (dall’Olanda del ‘600 alla Gran Bretagna del ‘700-‘800 fino agli Stati Uniti dal 1918 ad oggi), hanno da sempre attuato politiche protezionistiche nella fase della propria industrializzazione nascente e del proprio sviluppo endogeno per poi imporre, una volta raggiunta una solida posizione predominante, la norma del libero scambio al resto del mondo.

Il libero-scambismo, pertanto, oltre ad essere, in quanto generalizzazione “internazionale” del liberismo economico, l’ideologia dell’esautorazione della politica a vantaggio dei processi economici globali anonimi, nei fatti è un duplice micidiale strumento di dominio: da un lato è il mezzo con cui la formazione economica dominante, attorno a cui ruotano gli interessi capitalistici più solidi, indebolisce il potenziale concorrente e soggioga le economie deboli in via di sviluppo; dall’altro è il mezzo con cui gli interessi capitalistici, all’interno di tutti gli Stati interessati dal processo, riescono ad imporsi contro la resistenza dei lavoratori (ricatto della delocalizzazione e oggettiva insostenibilità della concorrenza di merci prodotte in condizioni normative troppo differenziate).
Il libero scambio è quindi simultaneamente un potente mezzo della lotta di classe mossa dal capitale contro il lavoro e del conflitto tra capitali più forti e capitali più deboli.
il libero-scambismo ha infine una conseguenza culturale e politica di vasta portata.
In un contesto di economia indiscriminatamente aperta l’effettività delle opzioni politiche democraticamente discusse e proposte dai cittadini si restringe drammaticamente. Le opzioni non liberiste, o persino le opzioni soltanto moderatamente liberiste, tese a porre dei limiti alla libertà economica individuale, diventano infatti prive di effettività in quanto contraddette da vincoli apparentemente oggettive che le rendono di fatto impraticabili. Ciò conduce inevitabilmente ad un senso di impotenza e frustrazione politica e sindacale che incrementa, per una sorta di processo di autolimitazione indotta, la forza stessa del vincolo esterno.
Una delle ragioni dell’evidente fallimento delle opzioni critiche dell’attuale capitalismo nel panorama politica europeo degli ultimi 20 ani è dovuta proprio alla difficoltà che nel corso degli anni ’90 e 2000 molte forze politiche hanno riscontrato nel criticare prioritariamente e senza compromessi la norma del libero-scambio internazionale e i processi di integrazione dei mercati a partire proprio dalla stessa formazione dell’Unione europea.




Ebbene, fatte queste premesse generali di contesto, passiamo ad una breve analisi del TTIP.
Il Trattato si inscrive perfettamente nella logica generale appena richiamata rafforzandola e portandola all’esasperazione.
Il TTIP a grandi linee prevede due vaste aree di intervento.
In primo luogo mira all’abbattimento pressoché totale (con alcune eccezioni che si stanno discutendo nel processo di contrattazione) delle barriere tariffarie e soprattutto non tariffarie tra Stati Uniti ed Unione europea, ovvero quelle barriere che includono contingentamenti delle importazioni e vincoli sulla qualità dei prodotti importabili).
In secondo luogo prevede meccanismi per cui le grandi imprese multinazionali possono citare in giudizio uno Stato per danni economici in tutti i casi in cui ritengano che l’azione pubblica abbia leso i propri diritti magari semplicemente per una diminuzione del livello dei profitti dovuta all’approvazione di qualche normativa di pubblico interesse. Il giudizio suddetto sarebbe vagliato da un collegio arbitrale privato estraneo alla giustizia ordinaria.
Entrambe le misure conducono a numerose conseguenze di estrema gravità.
In primo luogo, coerentemente con i principi del libero scambio, conducono ad una competizione al ribasso sulle componenti di costo sociali, ambientali e di regolamentazione, mettendo in crisi le economie dei paesi europei che hanno livelli di regolamentazione dei mercati mediamente assai più elevati rispetto a quelli vigenti negli Stati Uniti. Ciò potrebbe riguardare le normative relative alla qualità dei prodotti (presenza di prodotti agricoli OGM e di trattamenti ormonali delle carni ad esempio), il rispetto dei diritti del lavoro (gli USA non hanno mai sottoscritto alcune raccomandazioni e convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro), il rispetto dell’ambiente (la regolamentazione nord-americana è mediamente assai più permissiva di quella europea).
Inoltre, in assenza di accordi chiari sulla trasparenza informativa relativa ai prodotti esportati (ancora non è emerso se si riuscirà a trovare dei punti di compromesso su questo aspetto) non soltanto entreranno massicciamente sul mercato europeo prodotti di qualità inferiore (ciò è flagrante per il cibo), ma sarà altresì ridotta la possibilità di un’informazione chiara sulle caratteristiche dei prodotti venduti.
Le conseguenze economiche di questa tendenza sono chiare: le merci nord-americane risulteranno più competitive mettendo in crisi la produzione europea, provocando (come alcuni studi ritengono realistico) un aumento della disoccupazione nei settori più esposti alla concorrenza USA e spingendo i governi europei ad una maggiore deregolamentazione dei mercati per riallinearsi alle esigenze di competitività.  A tutto discapito dunque dei cittadini e dei lavoratori.
Per quanto riguarda invece la possibilità di citazione in giudizio degli Stati da parte delle multinazionali, ci troviamo di fronte ad una misura di profonda gravità che darebbe luogo a quella definitiva sottomissione della società intera nel suo insieme ad interessi economici di piccole oligarchie capaci di determinare la vita di milioni di persone. Di che si tratta? Una società nord-americana che investe in un paese europeo sarebbe garantita da eventuali danni ricevuti per via di una qualsivoglia azione legislativa promossa da uno Stato europeo che si dimostri aver determinato un pregiudizio economico all’impresa. Se uno Stato ad esempio volesse modificare la propria legislazione ambientale in senso maggiormente protettivo o elevare gli standard di protezione del lavoro si troverebbe a dover rimborsare la società multinazionale che sta subendo una riduzione dei profitti. O ancora se uno Stato volesse ri-nazionalizzare o un ente locale ri-municipalizzare un settore produttivo precedentemente privatizzato si troverebbe a dover fronteggiare non solo le classiche spese di rimborso da esproprio, ma anche i danni economici aggiuntivi causati alle società che operano in quel settore.
La sottomissione ad arbitrati internazionali privati estranei alla legge ordinaria non è una novità assoluta e già conosce casi celebri (come la citazione in giudizio dello Slovacchia da parte di una Multinazionale olandese di assicurazione sanitarie Achmea per aver rinazionalizzato il servizio precedentemente privatizzato). Tuttavia nel TTIP questa logica sovranazionale verrebbe accentuata e ulteriormente garantita nei rapporti tra multinazionali nord-americane e Stati europei.
Di fatto questa misura avrebbe come esito quello di condizionare pesantemente la libera azione degli Stati, blindando i processi di liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici e impedendo eventuali progressi nella legislazione sul lavoro ambientale e di regolamentazione dei mercati.
L’insieme di questi provvedimenti comporterebbe dunque un’ulteriore drastica limitazione di fatto della capacità degli Stati (già compromessa dall’adesione ai trattati UE) di intervenire in settori rilevanti del proprio sistema economico.

Un ulteriore elemento di preoccupazione è l’elevato valore geopolitico rivestito dal TTIP, tentativo statunitense di rafforzare il controllo dei paesi europei, ciliegina sulla torta del conflitto che oppone gli USA alle economie emergenti costituite dai cosiddetti BRICS. Dinamica ben spiegata in questo articolo http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=125810
Infine ad ulteriore lampante conferma del fatto che non esistono interessi condivisi e coesi (neanche capitalistici) tra Stati europei, va rimarcato il fatto che il processo di contrattazione, segreto e chiuso al dibattito pubblico, è stato prevalentemente gestito dalla Germania che ha cercato di tutelare i propri specifici interessi cercando di far ricadere le maggiori conseguenze negative del trattato di libero scambio sugli altri paesi, come ben spiegato in questo articolo di due anni fa: http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2014/3/2/GEO-FINANZA-Il-trattato-segreto-che-mette-in-palio-Europa-e-Italia/473929/

In definitiva, l’adesione al TTIP rivela ancora una volta la natura tecnocratica, classista e asimmetrica dell’Unione europea, creazione istituzionale che, senza dare luogo ad alcuna forma di sovranità politica superiore e partecipata, ha sottratto agli Stati la propria capacità di incidere sul sistema economico promuovendo con pervicace insistenza un paradigma di politica economica ultra-liberista che ha dato vita ad uno dei processi più clamorosi di redistribuzione regressiva del reddito (dai poveri ai ricchi) mai verificatosi nella storia recente.
Con il TTIP e con tutti i trattati di libero-scambio internazionali promossi dalla UE ciò che già è stato compiuto all’interno dell’Europa, ovvero la totale integrazione economica in assenza di integrazione politica, si generalizza ai rapporti con gli Stati terzi, in questo caso gli Stati Uniti, incrementando il ruolo di subordinazione dell’Europa a questi ultimi e alimentando i meccanismi economici e sociali perversi tipici di un’area di libero scambio con l’aggravante di esplicite previsioni di soggezione dirette degli Stati (meccanismi di giustizia sovra-nazionale) alla volontà di profitto delle multinazionali.
Tutte ragioni che invitano caldamente a prendere coscienza della gravità del trattato discusso e della necessità di far sentire voci dissenzienti.
Una buona occasione per farlo è la manifestazione promossa a Roma Sabato 7 Maggio dal Comitato NO TTIP.

https://stop-ttip-italia.net/7-maggio/





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