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sabato 4 gennaio 2014

Relativismo e universalismo. Riflessioni per l'impostazione del problema filosofico della Verità e del Bene.


Ripropongo qui un articolo scritto circa un anno fa per la Rivista Koiné focalizzato sulla dicotomia relativismo-universalismo.

Rimango sempre più fermamente convinto che la questione filosofica fondamentale da cui muovere per dare un orizzonte di senso alla realtà che ci circonda, saperla interpretare e quindi adoperarsi per poterla modificare, ruoti attorno al problema della verità.
Nello scritto che segue esprimo quella che vuole essere l'impostazione generale del problema. Chiariti i presupposti è poi possibile procedere oltre e dare linfa, sulle scie di una tradizione filosofica di lungo periodo, ad una filosofia della verità in cui venga compiutamente definita l'ontologia umana (ovvero la natura specifica dell'essere umano). 
Riconosciuta l'esistenza di una specifica ontologia umana è possibile avviare una critica radicale delle strutture sociali e interrelazionali della società contemporanea.



Relativismo e universalismo astratto: le due facce speculari del nichilismo. Bene e Verità come concetti “rivoluzionari” alla base di un universalismo sostanziale e di una critica radicale del capitalismo.


Introduzione

La cultura dominante dell’Occidente capitalistico si manifesta come un’unità inscindibile e complementare di relativismo ed universalismo astratto.
Per comprendere come questi due “caratteri” della cultura, dell’ideologia e della simbologia occidentale presentino una forte complementarietà, bisogna dapprima definirli correttamente. Se in apparenza si pongono come contrastanti, in realtà, il relativismo e quel tipo di universalismo che definisco “astratto” non sono altro che due facce di una stessa medaglia: quella del nichilismo. Scetticismo antiveritativo e disincanto di fronte alla realtà, da un lato; affermazione della libertà assoluta come valore procedurale e contemporaneo “colonialismo” culturale delle categorie liberali occidentali, dall’altro, si fondono nel comporre la natura di quello che si potrebbe definire in prima approssimazione “occidentalismo”. Tale termine naturalmente non indica affatto la cultura occidentale nella sua straordinaria e feconda stratificazione dai Greci ad oggi, bensì l’insieme di ideologie interne all’attuale paradigma culturale integrato nell’occidente capitalistico.




Il relativismo e la verità

Per relativismo si può intendere una posizione filosofica di negazione dell’esistenza o conoscibilità della verità, dove per verità non si intende naturalmente l’accertamento esperienziale di dati oggettivi verificabili di carattere fisico, ma si fa riferimento ad una verità sulla condizione umana in senso generale. Si tratta, cioè, della possibilità di affermare delle verità universali sull’Uomo che prescindano da meri dati di carattere materiale autoevidenti, del tipo: “l’uomo se non mangia muore”; oppure: “l’uomo senza gambe non più camminare”.
Oltre tali verità biologiche e scientifiche vi è la verità filosofica. Essa è la base di ogni universalismo ed è negata dal relativismo. Tale verità potrebbe consentire di affermare, pur con tutta la prudenza del caso, asserzioni generali quali, ad esempio, tale definizione di Uomo che qui propongo in termini esemplificativi: “L’uomo è un essere sociale e comunitario che non realizza sé stesso fuori dalla comunità in totale isolamento. Ciononostante presenta caratteri contraddittori per cui istanze egoistiche e prevaricatrici si fondono con istanze solidaristiche e di condivisione. Inoltre l’uomo è un essere universale che tende, contrariamente agli altri esseri viventi, a pensare sé stesso in quanto appartenente ad una specie, il genere umano, cui istintivamente si rapporta (tramite la mediazione continua delle comunità e dei gruppi collettivi cui appartiene), e da cui non può isolarsi per la propria realizzazione intima. Infine l’uomo, pur legato biologicamente ad indiscutibili bisogni materiali (essi stessi Veri) è portato, nella realizzazione della propria natura, ad elevare il proprio spirito oltre tali bisogni e ad interrogarsi circa la sensatezza dell’esistenza e circa la propria fine. Alla luce di tutto questo, l’uomo può ontologicamente disumanizzarsi (l’esistenza di tale verbo è di per sé eloquente) mentre il cane non può smettere di essere cane, e la pianta non smettere di essere pianta in senso ontologico, in quanto esseri dotati di una pura determinazione biologica ”.
Si tratta, di una definizione di Uomo molto ampia ed articolata che tuttavia può essere portatrice di un primo criterio veritativo.
Ma la verità filosofica potrebbe andare anche oltre e, pur con aggiuntiva e rinnovata prudenza e attenzione, potrebbe provare ad affermare, ad esempio, che: “l’uomo realizza pienamente sé stesso e persegue la felicità reale quando è dedito al bene”; ed ancora, conseguentemente: “il bene è qualcosa di conoscibile ed universalizzabile”; ed infine, per chiudere logicamente con la definizione di bene: “la caratteristica minima del bene consiste nella comunione cosciente con il prossimo e con sé stessi in una situazione di armonia ed equilibrio tra gli esseri umani, laddove l’equilibrio, dal momento che l’uomo è per natura mosso da forze contraddittorie, può anche implicare come esito il confronto sotto forma di scontro”. Si tratta di prime definizioni minime piuttosto inclusive e generali, al momento prese solo come esempio, che consentono tuttavia di affermare verità che pretendono un’universalità e una generalità. Esse naturalmente possono essere contestate, ma la loro contestazione, per chi le afferma, non ne implica una perdita di forza universale.
Il relativismo nega di fatto la possibilità di assumere un punto di vista veritativo sulla condizione umana e si limita ad affermare la verità di ogni punto di vista preso per sé stesso e quindi la sua ineluttabile relatività.
Da un punto di vista relativista, esistono soltanto opinioni e l’unica verità accertabile è quella biologica. Se un uomo afferma di perseguire il bene e la felicità trucidando bambini, ciò diventa vero in termini relativi (per il solo fatto che quell’uomo ne é persuaso e lo afferma). Il suo errore, in termini relativistici, è solo il suo crimine, quello, cioè, di violare l’altrui volontà e libertà imponendo la propria con la violenza. Ma la sua convinzione di essere appagato dall’azione infanticida, non può essere messa in discussione (ad esempio in termini di deviazione alienata dalla realizzazione umana e dal concetto di bene), poiché essa rimane relativa al suo giudizio (a meno che non si dimostri che quell’uomo é biologicamente “deformato”, ovvero “neurologicamente” pazzo). Rifiutando qualunque ontologia stabile dell'essere umano, il relativista può prendere in considerazione, come certezza empirica, soltanto la variazione dei dati biologici. Il resto è relativo.
Si tratta di un esempio estremo, espresso volutamente in questi termini. Tuttavia si possono fare decine di esempi assai meno estremi altrettanto pregnanti. In termini relativistici non è possibile affermare come vero per l’Uomo alcunché. Ciò perché semplicemente si nega una verità in merito alla natura umana, intesa come verità sulla realizzazione dell’uomo. Se la natura umana è indefinibile e l’uomo è una tabula rasa che determina sé stessa senza riferimenti universali e universalizzabili, è evidente che i pensieri, le azioni, i valori, la morale, la cultura possono essere giudicati soltanto entro le categorie, relative, interne ad una collettività ristretta o persino (in ultimo) interne ad un solo individuo.
Non è possibile dire, in ottica relativistica, per fare qualche esempio con immediata ricaduta politica, che, per l’uomo in generale, la partecipazione attiva alla vita politica e decisionale di una comunità (che non c’entra nulla con la differenza tra democrazia e dittatura basata sulle categorie proceduralistiche occidentali) è migliore dell’isolamento e dell’esclusione politica; oppure che il diritto alla casa e al lavoro garantiti è migliore della sua negazione sostanziale; oppure che la logica mercantile e capitalistica estesa all’intera riproduzione sociale è sempre e comunque devastante e indesiderabile per la stessa natura dell’uomo (in primis per i dominati e gli oppressi e indirettamente anche per i dominanti). Tutte queste asserzioni in ottica relativistica non possono essere verità, ma punti di vista ed opinioni.
Il relativismo conduce per forza di cose allo scetticismo ed al disincanto di fronte alla conoscenza della realtà come totalità espressiva e riduce l’umanità ad insieme di opinioni individuali relativamente valide.
E’ l’antitesi dell’universalismo e dell’idea di genere umano come totalità conoscibile, descrivibile e dotata di senso e di verità oltre le ovvie ed indiscutibili determinazioni biologiche.


La funzione positiva della “relativizzazione”, come pratica provvisoria diversa dal “relativismo”

Se il relativismo compiuto che assurge a posizione ideale di lettura del mondo è l’anticamera del nichilismo e del disincanto sul mondo ed in tal senso è integralmente negativo ed inadatto all’universalità intrinseca dell’Uomo, è importante, invece, riconoscere  una funzione positiva a quella che definisco “pratica della relativizzazione”.
       Con questo concetto intendo la capacità critica di saper “relativizzare provvisoriamente” gli elementi della realtà per leggerli entro il contesto in cui tali elementi si sviluppano e prendono forma. Si tratta di una pratica necessaria per evitare l’assolutismo delle categorie, ovvero l’arbitrio di attribuire proprie categorie già compiute e tipiche di un contesto, in forma approssimativa e spicciola, ad ogni altra realtà e contesto esterno. La relativizzazione naturalmente è una pratica della conoscenza che non può che essere provvisoria e rinnovarsi ad ogni stimolo critico. E’ provvisoria poiché se diventa permanente sfocia inevitabilmente nella sua cristallizzazione definitiva che in fondo non è altro che il relativismo stesso.
D’altro canto il relativismo nasce proprio dall’esasperazione e dalla cristallizzazione della relativizzazione. A forza di relativizzare, in sostanza, se non si giunge mai ad un punto fermo, si cade inevitabilmente nella posizione anti-veritativa di tipo relativistico, si sospende cioè il giudizio su qualsiasi cosa. Si tratta, a ben vedere, di un paradosso solo apparente: la relativizzazione, infatti, ha di per sé una funzione positiva irrinunciabile perché consente di giungere ad una verità che non sia puramente formale ed apparente e che scavi nella sostanza ultima della realtà. Serve, come vedremo, proprio ad evitare di cadere in quello che definisco “universalismo astratto o procedurale”. Serve, quindi, a rafforzare l’universalismo stesso (criticandone la versione astratta e debolista) e consentendo il raggiungimento di un punto di vista universale sostanziale.
E tuttavia, la relativizzazione, che è in sé una sana pratica finalizzata all’universalismo sostanziale, se cristallizzata si trasforma in relativismo, ovvero nel complemento logico dell’universalismo astratto.


Universalismo astratto e procedurale. L’altra faccia del relativismo.

L’universalismo astratto è una forma di universalismo debole nella sostanza, ma forte e pervasivo nella forma, che ha una duplice radice: da una parte è il frutto di una pratica universalistica che non relativizza mai sé stessa (in tal senso è forte nella forma e arrogante negli esiti); dall’altra è una comoda, ipocrita e debole reazione consolatoria (in tal senso è debole nella sostanza) al relativismo. Il relativismo puro è infatti insopportabile per l’uomo e tende generalmente a trovare una falsa copertura universalistica.
L’universalismo astratto può essere descritto come il tentativo di universalizzazione di “valori” e criteri di tipo prettamente formale, procedurale, o semplicemente assolutizzati in sé, del tutto estranei alla sostanza delle cose. Tipici esempi sono i cardini dell’universalismo liberale (punto di arrivo massimo dell’universalismo astratto): la democrazia come procedura assolutizzata e i diritti umani come ideale formalizzazione di un principio astratto calato dall’alto fuori dalla contestualizzazione. Altro esempio di universalismo astratto è il principio della non violenza (non la sua pratica che è di per sé un nobile e a volte utile strumento di lotta e metodo di azione).
Più in generale l’universalismo astratto afferma delle verità in generale, autonome, la cui sostanza prescinde totalmente dalla contestualizzazione e dalla storicizzazione minima, configurando quindi una vera e propria morale autonoma (che è speculare all'assenza di morale). Ad esempio se io affermo che la frase “uccidere è sbagliato” è sempre e comunque vera, sto affermando che è sbagliato uccidere in tutti i casi, anche come legittima difesa o come forma di resistenza contro un’aggressione. Sto, cioè, decontestualizzando un principio morale generico che assurge a verità. Mentre il relativista assoluto afferma che non vi è alcuna possibilità di stabilire una verità sul fatto che “uccidere è sbagliato” anche a seguito di una contestualizzazione accurata dell’omicidio, l’universalista astratto afferma a priori che uccidere è sbagliato indipendentemente dalla contestualizzazione. In entrambi i casi si svuota la realtà di senso e quindi si cade nel nichilismo. Il relativista nega la verità, l’universalista astratto l’afferma al di là della realtà.
La Verità invece, per quanto non sempre di immediata comprensione, esiste ed esiste all’interno della realtà, ed è universale, ovvero è valida per tutti in generale (anche per chi non la accoglie soggettivamente) e non è frutto di opinioni relative tutte egualmente valide e tutte dotate di senso relativo. Per verità, ovviamente, non intendo (ribadirlo è sempre utile) il solo accertamento dei fatti e degli eventi per come si sono oggettivamente svolti (oltre le interpretazioni parziali e filtrate dalle soggettività). La Verità, in senso filosofico, esiste anche in termini di giudizio di “Buono” e “Cattivo”, “Giusto”e “Sbagliato”, “Umano” e “Disumano”. Naturalmente, e qui si apre un problema gigantesco, essa è difficile da definire, da conoscere e soprattutto da rendere conoscibile, nota e universalmente accettata. Ma queste enormi e apparentemente spaventose e insormontabili difficoltà non possono impedire di affermare che la Verità (intesa non solo come accertamento dei fatti) esiste, anche quando la sua conoscibilità e accettazione appaiono impraticabili. In un’epoca in cui la manipolazione mediatica integrale della realtà arriva a toccare anche i fatti stessi, che perdono di consistenza e di verità e rimbalzano ai nostri occhi sotto forma di opinioni e di sentito dire, l’affermazione appena fatta può apparire enorme. Ma a ben vedere non lo è. E’ solo la diretta conseguenza della necessaria fiducia nella possibilità e necessità di un universalismo sostanziale come derivato intrinseco della stessa Natura umana.
Tornando, in ogni caso, alla descrizione dell’universalismo astratto (nemico mortale, con il relativismo, dell’universalismo sostanziale), si può ribadire, per chiarezza, che alla sua base vi è l’idea di “affermazione di verità generale decontestualizzata”. L’esempio “uccidere è sbagliato in sé” è un esempio estremo, poiché quasi chiunque in fondo finirebbe per ammettere la liceità della violenza in condizioni di estrema necessità. Tuttavia ciò che conta sono le conseguenze che ha di fatto l’universalismo astratto in termini di lettura della realtà e di posizionamento etico e politico rispetto ad essa. L’universalismo astratto induce all’assunzione di verità formalistiche e procedurali, come le forme di governo (oltre la sostanza dei rapporti politici ed economici) le forme del diritto (oltre la sostanza dei rapporti di forza), le forme della morale individuale autonoma (oltre la sostanza dell’etica collettiva) le forme dell’agire (oltre la sostanza contestuale dell’azione)

Universalismo astratto, individualismo, comunitarismo

In particolare l’universalismo astratto non può che avere una matrice individualistica, nella misura in cui, per giungere ad un’immediata (nel senso letterale di “senza mediazione”) verità universale (per giunta debole) deve saltare la verità come portato delle collettività e delle comunità. L’individuo deve cioè essere immediatamente collegato all’universale assumendo principi generali slegati dalla storia, dalla tradizione e dalle comunità reali nelle loro infinite particolarità.
L’universalismo astratto si configura così come furia del dileguare, di matrice illuministica, a carattere anticomunitario e costruito sulla base di una morale autonoma assolutizzata. D’altro canto al suo (apparente) opposto esiste una forma di relativismo comunitaristico (che altro non è che un relativismo spostato dall’individuo alla comunità o, in termini ancor più ampi, alla civiltà) altrettanto pericoloso che vorrebbe rendere ingiudicabili di per sé quelli che sono i valori, i costumi, le usanze e, in ultima istanza, le verità di ogni comunità dotata di una propria personalità specifica.
Esiste in molti paesi europei, in particolare in Francia, un costante dibattito tra universalismo astratto di tipo illuministico e comunitarismo relativistico. Anche in questo caso siamo di fronte a due facce della stessa medaglia in contrapposizione apparente tra di loro. Gli anticomunitaristi militanti (corrente in cui potremmo inserire ad esempio in Italia la rivista Micromega, sempre solerte nel denunciare il pericolo comunitarista anti-illuminista) se la prendono contro la pretesa delle comunità (ivi compresi gli Stati) di fondare su sé stessa e sui propri valori  la propria stessa esistenza, schiacciando con questo il principio di autodeterminazione individuale (che per costoro è la base astratta dell'universalismo illuministico cui si appellano). D’altro canto i teorici del comunitarismo relativistico oppongono all’universalismo astratto l’inconoscibilità di una verità universale del genere umano predicando persino aberrazioni come la sovranità micro-comunitaria entro gli Stati nazionali . Entrambe le posizioni cadono nel nichilismo da due precipizi opposti, ovvero in una posizione di distaccamento della realtà umana nel suo complesso (realtà umana che è insieme particolare ed universale).

Il comunitarismo, come sarà poi ribadito, laddove inteso diversamente, é invece totalmente compatibile con una prospettiva universalistica sostanziale. Di più, l’universalismo sostanziale è possibile soltanto in termini comunitari, laddove l’universalismo individualistico si manifesta sempre e soltanto come universalismo astratto e furia del dileguare abolizionistica. Lungi dall'essere due termini in opposizione comunitarismo (universale) e universalismo (sostanziale) sono in realtà due termini in reciproco rapporto di dipendenza.



Relativismo e universalismo astratto come doppia base dell’ideologia e della “cultura” capitalistica. Nichilismo della merce e compensazione universale pseudo-umanistica fondata sui pilastri concettuali della libertà e del progresso.


Il capitalismo è accumulazione illimitata di merci senza fine temporale e senza fine (scopo) sociale. Il rapporto di produzione capitalistico è l’unione di libero sfruttamento e di libera concorrenza al puro fine della massimizzazione del profitto e del potere. Il mercato, luogo di queste libertà, è per definizione il luogo del “relativo”. Ogni cosa, nel mercato, ha valore, solo in relazione al suo valore di scambio, che non è intrinseco, e in relazione al fine (non sociale) di consumo e produzione come atti individualizzati e scissi da qualsiasi criterio collettivo e comunitario di valutazione, pianificazione e controllo.
Inoltre il capitalismo, pur generalmente entro una cornice legale che si autorappresenta come non arbitraria e contrattuale, deve far uso della violenza come forza sistematica di imposizione della propria logica.
Per queste ragioni il capitalismo non tollera la verità e non sopporta l’universalità. La verità e l’universalità impongono riflessioni sulla bontà delle cose e non ammettono ciò che si autolegittima in sé come meccanismo e automatismo neutro le cui dinamiche non possono essere valutate e giudicate. La verità giudica e pretende; la logica capitalistica sfugge al giudizio e si presenta come meccanismo puro asettico ed efficientistico. Per questo motivo il capitalismo non può che avere come fondamento ideologico il relativismo, ovvero la professione di ingiudicabilità della realtà, alla cui base vi è, come visto, la proclamata impossibilità di asserire verità generali non puramente biologiche e fattuali sulla condizione umana.
La filosofia che ha sempre funzionato da sponda ideologica del capitalismo, ovvero il liberalismo, contiene in sé e nella sua contraddizione il segreto dell’unità inscindibile tra relativismo (come sfondo ineliminabile su cui scorrono la merce, lo scambio, il consumo, la concorrenza e lo sfruttamento) e universalismo astratto (come compensazione necessaria e coscienza infelice della borghesia in quanto classe pseudo-universalista). Le dinamiche capitalistiche che nel loro svolgimento sono puramente nichilistiche (ovvero non rispondono a nulla che sia riconoscibile come criterio valoriale), necessitano pur tuttavia di un falso universalismo consolatorio, poiché l’uomo è, è stato e sempre resterà un essere veritativo ed universale (che non può vedere sé stesso come atomo relativo isolato dal genere umano). E questo universalismo compensativo che compensa l’intollerabilità del nichilismo puro va ricercato in due concetti: la libertà e il progresso.
A ben vedere si tratta degli unici due concetti fondamentali che nell’ideologia liberale vengono universalizzati, dal momento che tutto il resto rimane relativo, soggettivo, arbitrario e ingiudicabile. Qual è l’elemento che caratterizza i valori di libertà e progresso?
L’essere entrambi legati all’idea di massima autodeterminazione individuale e l’essere entrambi pre-relazionali. Mentre ad esempio il criterio di giustizia e di bene, o il criterio di solidarismo prevedono a priori forme di contatto comunitarie (poiché sono concetti relazionali), la libertà, come valore in sé, è un concetto individuale cui ogni altro valore è sottomesso; allo stesso modo il progresso è un valore di per sé scevro da condizionamenti comunitari impositivi. Vediamone meglio i dettagli.

Per ciò che riguarda la libertà, in ottica liberale, l’individuo deve godere della massima libertà assoluta per poter egli stesso scegliere liberamente di aderire al bene o al male, al solidarismo o all’indifferenza, alla comunione o all’egoismo. E’ la libertà assoluta ad essere universale, non i valori relazionali, che sono invece il frutto di libere scelte soggettive. Ciò implica l’azzeramento d’ogni altro valore generalizzabile che è rimesso alla stessa libertà dei singoli e non può essere di per sé universalizzabile.
Naturalmente il liberalismo riconosce limiti alla libertà individuale, ma soltanto nella misura in cui essa violi l’altrui libertà (concetto di libertà negativa). Si tratta di una formula che esclude ogni limitazione della libertà che sia per il conseguimento del bene comunitario che sia a fini educativi, o che sia per la stessa limitatezza conoscitiva del singolo inteso come estraniato dal suo contesto.
Che il liberalismo reale si sia sempre coniugato con forme di moderazione e limitazione del proprio stesso principio assoluto di libertà e che quest’ultima sia stata, in contesti liberali, violata anche per fini collettivi e comunitari, non può essere negato. Tuttavia si tratta sempre di correttivi al principio generale, digeriti come dosi di realismo a fronte della complessità della realtà. Ciò che conta è però il principio, non i suoi correttivi contingenti. Ed il principio della libertà assoluta è il principio primo dell’universalismo liberale, ovvero della forma più completa e pervasiva di universalismo astratto.
L’aspetto paradossale, che rende il principio di libertà assoluta universalizzato particolarmente pericoloso, è che esso si autorappresenta come neutrale. Mentre principi come la giustizia, il solidarismo, il bene comune e collettivo e qualsiasi altro principio forte relazionale vengono giudicati (ed in effetti lo sono) come principi impositivi, il principio di libertà è giudicato come neutro, poiché in apparenza non obbliga, non impedisce, non costringe, non limita, non frena. Si tratta del paradosso del liberalismo, un paradosso di una potenza ideologica sconfinata che rende tale ideologia particolarmente aggressiva nei fatti e apparentemente docile nell’immagine.
La libertà assoluta, in realtà, è essa stessa un principio impositivo tanto quanto lo è la giustizia, il bene e ogni altro principio. Ponendosi, infatti, come principio primo inviolabile, subordina a sé stessa ogni altro principio limitando di fatto la stessa scelta dell’essere umano in quanto essere sociale.
D’altro canto è chiaro che se l’essere umano viene visto come atomo slegato dalla società, il principio di libertà assoluta appare come un principio non solo ovvio, ma anche l’unico principio primo possibile. Ma il problema è proprio nelle premesse. Dal momento che l’uomo non è un atomo pre-relazionale, ma è un essere sociale e comunitario il principio di libertà assoluta si configura come un principio impositivo e coercitivo (anche se apparentemente libertario), in quanto impedente l’universalizzazione di altri principi primi.
Una coercizione che assume le vesti apparenti della massima libertà di scelta e di autodeterminazione individuale e che pertanto vorrebbe sfuggire al suo stesso carattere impositivo.
Emerge qui la peculiarità del principio di libertà assoluta che si manifesta chiaramente come principio relativistico (e in quanto tale debole) poiché, esattamente come il relativismo, si fonda su un micidiale paradosso: nega di essere impositivo, ma in realtà ha un suo principio impositivo. Nel relativismo, inteso in senso generale, il principio impositivo è la negazione dell’esistenza della Verità (e la professione di validità relativa di ogni verità). Similmente nel liberalismo il principio impositivo è la massimizzazione della libertà e la conseguente professione di indifferenza, in termini universali, verso gli altri valori subordinati a libere scelte relative. Il liberalismo manifesta chiaramente la stessa radice del relativismo.
In questo senso il liberalismo è una realizzazione del relativismo e il suo universalismo astratto fondato sulla libertà assoluta è l’altra faccia speculare del relativismo stesso. E’ in fondo il relativismo che si universalizza facendo proprio un principio universale che appare come inclusivo d’ogni altro principio. Un universalismo che allo stesso tempo funziona come consolazione del vuoto lasciato dal relativismo preso nella sua purezza insostenibile ed insopportabile.
E’ la consolazione della borghesia settecentesca che si professa classe portatrice di valori universali e di liberazione; ed è la consolazione, ben più grottesca, dell’uomo contemporaneo occidentale che universalizza nel mondo i valori estraniati di diritto e di democrazia.
Al valore di libertà assoluta come fondamento del liberalismo si aggiunge il valore di progresso che completa la giustificazione morale del capitalismo e completa la costituzione dell’universalismo astratto di matrice liberale. Dal momento che lo svolgimento delle dinamiche capitalistiche pure (concorrenza, sfruttamento, assenza di fini sociali premeditati, dominio dell’economia sulla politica) non Ë giudicabile, si impone la necessità di dare un senso generale alla dinamica del rapporto sociale capitalistico. Anche in questo caso, va ribadito che l’uomo Ë per definizione portato ad attribuire un senso generale alle sue azioni e alla sua esistenza, singola e sociale. Non può, cioè, fare a meno di una metafisica.
Demolita ogni metafisica forte (religiosa, politica, umanistica che sia) che possa intralciare e limitare il libero funzionamento della logica del capitale e del mercato, rimane soltanto la metafisica del progresso. Se la libertà assoluta funge da giustificazione a priori dell’accumulazione di denaro, della competizione e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il progresso funge da dotazione di senso ultimo a posteriori. Le dinamiche violente e nichilistiche del capitalismo (di per sé prive di qualunque fine sociale, che non sia il fine di arricchirsi) possono così acquisire sensatezza generale nell’orizzonte del progresso materiale dell’umanità, nell’avanzamento della tecnica, nel superamento dei limiti terreni dell’uomo che la natura gli impone.
L’universalismo liberale e capitalistico si tinge così anche di progressismo ideologico, oltre che di libertà assoluta, ma il progressismo ideologico in quanto privo d’ogni valore sostanziale è esso stesso un lasciapassare per il relativismo e per il nichilismo (dal momento che non si interroga sui valori di fondo che precedono e permettono la sua realizzazione, ma si assolutizza come valore in sé, relativizzando ogni altra cosa).
Libertà e progresso diventano le due colonne portanti dell’universalismo astratto per eccellenza e del relativismo in quanto facce della stessa medaglia. Tra i due termini (libertà e progresso) vi sono in mezzo le relazioni di produzione capitalistiche giustificate dalla libertà e riempite di senso dal progresso secondo tale semplice logica schematica: Libertà – Rapporti capitalistici – Progresso.
Sono dunque il principio apparentemente neutrale della libertà assoluta e il principio apparentemente neutrale del progresso, entrambi posti come a-valutativi, ed entrambi scissi dalle dinamiche reali della società e dai rapporti dell’uomo con l’uomo, che mostrano in maniera evidente la complementarietà e la specularità dell’universalismo astratto e del relativismo, il loro essere cioè le due facce di un’unica medaglia: quella del nichilismo.
Nella libertà in sé e nel progresso in sé, vi è infatti il nulla, dal momento che tali pseudo-valori prescindono totalmente dalle dinamiche umane relazionali nel loro svolgersi ed evolversi. La libertà è uno pseudo-valore aprioristico che precede la relazione. Il progresso è uno pseudo-valore a posteriori che dà senso astratto ad una relazione priva di senso.




L’universalismo astratto e procedurale e la teologia interventistica occidentale della democrazia e
dei diritti umani


Il relativismo è spesso posto in contrasto con l’universalismo astratto, poiché in effetti, il relativismo puro negherebbe formalmente anche l’universalizzazione dei concetti di libertà e progresso (e i loro corollari: democrazia procedurale, diritti umani etc etc). Di tale apparente contrasto vale la pena segnalare due aspetti. Il primo concerne la sostanza reale di questo contrasto, il secondo l’uso strumentale ideologico.
Dal punto di vista sostanziale si può dire che l’universalismo astratto in generale (e in particolare nella sua realizzazione liberale) parte senza dubbio da una corretta polemica anti-relativistica nel tentativo di opporre all’esplicito nichilismo del relativismo, un metro di misura della realtà tramite categorie universalizzabili. Tuttavia le categorie universalizzate finiscono per essere, come visto, del tutto astratte, sganciate dal contesto reale e dalla verità comunitaria e collettiva, dunque individualistiche e prive di sostanza. Pertanto se la reazione al relativismo ed ai suoi esiti nichilistici Ë corretta, tuttavia gli esiti dell’universalismo astratto finiscono per essere essi stessi nichilisitici.
Vi è poi un secondo aspetto, assai gravido di conseguenze, che concerne l’uso imperialistico e colonialistico dell’universalismo astratto. Si tratta di un vero e proprio abominio, di  un’impostura concettuale asfissiante che fa ed ha fatto da base ideologica, in particolare negli ultimi venti anni, alla strategia imperialistica occidentale di conquista, distruzione e sottomissione di ogni area del mondo ostile ai propri piani egemonici.
Si tratta di quella che Costanzo Preve ha correttamente definito “teologia interventistica dei diritti umani” e che sempre correttamente ha chiamato “l’equivalente contemporaneo della teoria della razza di Hitler”.
Gli agenti culturali della supremazia occidentale (in buona o cattiva fede poco importa) alzano la bandiera dell’universalismo astratto dei diritti umani e della democrazia prendendosela con la “non-ingerenza” accusata implicitamente di insensibile relativismo culturale e indifferentismo per le sorti dei più deboli e i destini dei popoli. La guerra ideologica contro l’Islam (con centinaia di libri scritti per dimostrare l’incompatibilità strutturale tra Islam e democrazia, Islam e diritti umani e civili etc etc) è un esempio decisivo di tale crociata occidentalista. Chi non si schiera urlando e strepitando contro il Burka e contro la lapidazione delle adultere è tacciato di relativismo culturale, di incapacità di difendere i sacri (o profani) valori dell’occidente cristiano (per la destra) e illuminista (per la sinistra).
Naturalmente, in un’ottica universalistica sostanziale vi sono ottimi argomenti per respingere come odiosa la pratica della lapidazione delle adultere (sul Burka la cosa è più complessa anche se si può ben dire che si tratta di una sgradevolissima coercizione ). Il punto quindi non è certo giustificare o accettare come relativamente valide (in ottica relativistica, appunto) pratiche evidentemente odiose. Il punto è semplicemente comprendere il carattere totalmente parziale e strumentale della crociata ideologica e tirarsene fuori. La crociata, non a caso ha sempre obiettivi specifici (Islam, Cina, “dittature” sud-americane, diritti umani in Sudan, dittature militari in Medio-Oriente e in Asia centrale etc etc)  e raramente affronta il problema dell’universalismo dei valori e dei principi mettendo sull’arena della Verità tutte le immondezze culturali e sociali prodotte dalle diverse società, a partire ovviamente dalle società occidentali capitalistiche ciniche spietate dissolute e prostituite.
Il vero obiettivo della crociata non è il Burka o la lapidazione delle adultere, né l'integralismo islamico in sé (come noto svariati gruppi islamisti anche estremisti integrabili sono stati finanziati lautamente dai servizi segreti occidentali per obiettivi geopolitici). Il vero obiettivo della crociata anti-islamica sono i limiti al capitalismo finanziario posti dalla Sharia, le incompatibilità tra un certo Islam politico e il capitalismo assolutizzato, gli obblighi caritatevoli strutturali delle economie islamiche e, naturalmente, la conquista geopolitica del cuore dell’Asia e del Medio-Oriente (altro che il Burka o l'incompatibilità tra Islam e diritti umani).
In questo senso, quindi, il dibattito tra universalisti con il fucile e gli aerei carichi di bombe contro antropologi relativisti non offre davvero alcuno spunto sostanziale, se non l’interessante studio sociologico e politico della “teologia interventistica dei diritti umani e della democrazia”. Tale immonda cultura è così pervasiva da aver penetrato tutti gli ambienti ideologici, da destra e sinistra, assumendo secondo i casi diverse sfumature. Ma la sostanza ultima è sempre la medesima: tutti i popoli del mondo dovrebbero anelare a società basate sulla democrazia procedurale di tipo occidentale e sui diritti umani e se non anelano a questo è perché sbagliano e non sanno cosa devono volere, e pertanto siamo legittimati ad imporglielo, con le buone (propaganda, radio, pubblicità, pornografia) o con le cattive (bombe, uranio impoverito, invasioni terrestri, stermini di massa, occupazioni militari permanenti).

Ma vediamo meglio i due cardini di tale ideologia interventistica. La democrazia, svuotata completamente di sostanza, è intesa come democrazia liberale di società capitalistiche, possibilmente a sistema maggioritario e possibilmente con il diritto di spendere miliardi in campagne di propaganda finanziata da banche, assicurazioni e grande imprenditoria da parte degli unici due candidati ammessi di fatto. Si tratta naturalmente di un’impostura concettuale di inaudita gravità. Democrazia letteralmente significa potere del popolo, o, ancora meglio, popolo al potere ed intende, in termini sostanziali, la partecipazione più o meno diretta (e più o meno delegante) del popolo alla gestione del potere e del governo, alla gestione quindi di tutti i momenti della socialità materiale e ideale che si esprimono collettivamente. Non è questa la sede per un’accurata disamina del significato profondo di democrazia e di tutte le sue potenziali innumerevoli sfumature.
E’ tuttavia certo che la democrazia agitata dai teologi dell’interventismo occidentale è solo ed esclusivamente una procedura formale ed una struttura istituzionale ben precisa cui viene contrapposto sempre l’incubo della dittatura indipendentemente dai rapporti sociali sostanziali che una determinata società esprime. Il pluripartitismo ad esempio, o l’esistenza di elezioni ogni cinque anni non sono di certo garanzia di democrazia in senso sostanziale. D’altro canto il monopartitismo non è di certo sinonimo di dittatura e di assenza totale di democrazia.
In un paese come Cuba si vota ogni 2 anni per le assemblee municipali e ogni 5 anni per quelle provinciali e nazionali ed esiste, a livello municipale il diritto di destituzione dell’eletto da parte degli elettori (cosa da noi inesistente). Nelle elezioni è vietata la propaganda pubblicitaria e i candidati si possono confrontare in arene pubbliche dove possono esprimere le loro idee, i loro meriti senza denigrare l’avversario. L’affluenza alle urne  mediamente supera il 98% degli aventi diritto. Vi è però un partito unico (che coordina l’attività politica ed è di per sé estraneo all’assemblea legislativa) e i candidati non si scelgono sulla base del pluripartitismo, ma all’interno della legittimità costituzionale su base personale. Tutto questo per sovrana decisione del popolo cubano che ha ratificato tramite referendum la costituzione del 1976 che tra le altre cose prevede anche il sistema monopartitico. A Cuba inoltre esiste il diritto assoluto al lavoro, ad uno stipendio dignitoso, alla sanità e all’istruzione gratuite. Esistono altresì particolari doveri di fedeltà alla nazione e allo Stato: ad esempio in termini di prestazioni sanitarie in loco da parte di medici formati dal sistema universitario nazionale (con i soldi di tutti) e che non possono (giustamente) andare a guadagnare miliardi in qualche clinica statunitense.
Tutti questi elementi, senza per questo affermare che Cuba sia l’esempio cristallino di democrazia perfetta (di problemi in questo senso ne ha sicuramente molti), sono nella sostanza elementi forti di partecipazione del popolo al potere e alla comunità nazionale, in un reciproco rapporto di diritti e doveri e in un tentativo di neutralizzare il potere (ben più debole tra l’altro rispetto ad un paese capitalista) del denaro (divieto di propaganda). Al contrario invece, nei termini della teologia democratica interventista, si tratta di elementi che limitano e ostacolano la libertà e quindi la democrazia (in particolare il monopartitismo e i vincoli di fedeltà allo Stato, ripetutamente presi ad esempio del carattere dispotico e dittatoriale dell’isola caraibica).
Al contrario gli USA e i paesi dell’Unione Europa sono, nell’ottica della teologia democratica, paesi democratici a priori. Anche se i governi hanno ad esempio sottoposto (nel caso dei paesi europei) le loro stesse costituzioni a pesanti modifiche sostanziali a causa dell’adesione a trattati UE non soggetti a consultazione popolare (oppure, se sottoposti a referendum, senza alcuna considerazione del risultato); anche se nelle elezioni è permessa la propaganda e il libero finanziamento da parte di privati miliardari; anche se esercita di fatto il diritto di voto il 40-50% della popolazione (Stati Uniti); anche se esistono sistemi maggioritari che impediscono ai partiti meno forti di avere voce in capitolo; anche se un cittadino può avere una grave malattia e non essere curato etc etc…
Siamo di fronte quindi ad un tentativo di imporre un concetto puramente procedurale di democrazia, che, nel suo aspetto strumentale, altro non è che la copertura dei termini più volgari e diretti  “capitalismo” e “mercato”.
Discorso analogo vale per i cosiddetti diritti umani, estrapolati come categoria generica. Andiamo in questo caso direttamente al loro aspetto manipolativo e strumentale. I diritti umani diventano il metro di giudizio per incriminare qualunque capo di Stato scomodo che attui politiche repressive o di limitazione di alcune libertà. Il contesto in cui tali pratiche avvengono, naturalmente per i teologi interventisti non ha nessuna importanza. Mentre scrivo assistiamo impotenti ai criminali bombardamenti imperialisti sulla Libia effettuati con la scusa ignobile della difesa dei diritti umani della popolazione civile. E’ormai evidente a tutti che la controffensiva di Gheddafi (al di là del suo carattere sproporzionato o meno che fosse) è tuttavia avvenuta in risposta ad azioni di violenza e conquista militare da parte di gruppi armati decisi a rovesciare l’ordine costituito con la forza (altro che manifestazioni pacifiche di piazza!). Qualunque capo di Stato al mondo sarebbe intervenuto (e avrebbe fatto il suo dovere) con l’esercito in difesa dell’integrità territoriale del proprio paese e della sua sicurezza. Questo va affermato al di là delle ragioni o dei torti delle due parti e al di là dei rapporti con l’imperialismo straniero (con tanto di dotazione di armi e linee strategiche) che i ribelli hanno avuto. L’intervento dell’esercito di Gheddafi è stato quindi un intervento ordinario e consequenziale alla natura degli eventi. Inoltre (e qui siamo alla menzogna mediatica diretta) non vi è stato nessun bombardamento di folle inermi o di manifestanti pacifici, né fosse comuni (tutte notizie la cui falsità si è poi rivelata esplicitamente). Eppure l’intervento armato degli imperialisti è stato giustificato con la scusa dei diritti umani e della violazione dei diritti della popolazione civile. Una logica che Ë stata sostenuta (in diverse versioni e sfumature), oltre che dalla classe politica per intero (o quasi), da decine di intellettuali di sinistra (da Flores d’Arcais a Rossana Rossanda) sacerdoti “pacifisti” della teologia interventistica (in alcuni casi favorevoli alle stesse bombe “umanitarie”, in altri favorevoli ad un “pacifico” cambio di regime comunque eterodiretto e per giunta evidentemente favorevole agli interessi occidentali).
Lo stesso copione si è verificato d’altro canto in situazioni preparative di intervento armato o semplice pressione diplomatica finalizzata ad ingerenze contro paesi sovrani. Alcuni esempi: in Serbia nel 1999 (per il supposto genocidio, rivelatosi poi inesistente, della minoranza albanese-kosovara); in Cina nel 2008 (per la repressione della rivolta tibetana, che ha rivelato poi uno scenario capovolto); in Birmania nel 2007 (la repressione dei monaci zafferano); in Iran (i supposti brogli di Ahmadinejad nel 2009); in Sudan per diversi anni (per il genocidio dei neri del Darfur). Alla base degli interventi armati in Afghanistan e Iraq vi è stata, sotto le bufale di Al Qaeda e delle armi di distruzioni di massa, anche la retorica dell’esportazione della democrazia. E così via…
Più in generale si tratta della demonizzazione del tiranno (qui democrazia e diritti umani fanno un unico gioco), dell’ipostatizzazione dei concetti di dittatura e dispotismo che assurgono a categorie del Male pseudo-universali speculari a quelle di democrazia e diritti umani che assurgono a categorie del Bene pseudo-universali.
Il problema della teologia interventistica, naturalmente, non si limita ai cosiddetti interventi umanitari armati oppure alle pressioni diplomatiche provenienti dall’alto. Si generalizza in termini di mentalità e di cultura anche all’interno di forze non immediatamente al servizio degli interessi del capitale, a partire dalla sinistra, letteralmente infestata dalla mentalità formalistica “missionaria” e suprematista dei diritti umani. Il comunicato di Sinistra e Libertà contro la guerra in Libia, uno dei tanti comunicati connotati dal medesimo tono, parla chiaro: “Per noi il no alla guerra e l’inimicizia e l’avversione nei confronti di Gheddafi hanno ugual rilievo. Dobbiamo uscire dal vicolo cieco tra inerzia e guerra per generalizzare il tema dei diritti umani e della democrazia”. E ancora:…”con l’obiettivo di mantenere l’integrità e l’autonomia di quel Paese sotto un nuovo governo democratico”; e in aggiunta:…. “l’Italia si faccia promotrice di una iniziativa politica per determinare il cessate il fuoco e l’apertura del tavolo negoziale, oltre a richiedere l’applicazione delle parti della risoluzione 1973 che consentirebbero di promuovere un’ intervento positivo per il cambio del regime e la protezione dei civili”. Siamo di fronte non soltanto all’equidistanza tra aggressione imperialista e (supposta) repressione interna (in verità configurabile come legittima risposta armata ad un attacco armato); ma anche (e ciò per alcuni versi è ancor più grave) ad un’asserita e ribadita volontà missionaria di esportazione della democrazia (nel senso occidentale) tramite il rovesciamento golpista dall’esterno di quello che è un governo (nel bene e nel male) legittimo e che ha goduto e gode dell’appoggio di larga parte della popolazione libica. Un rovesciamento che, visto il richiamo alle Nazioni Unite come missionari democratici, imporrebbe, alla luce dei rapporti di forza internazionali, un governo fantoccio al servizio degli interessi occidentali.
Siamo di fronte, pertanto, ad una esplicita mentalità coloniale in versione umanitaristica.
Nel paragrafo finale sarà discusso brevemente il problema del cosiddetto interventismo e della violazione della sovranità degli Stati in un’ottica universalistica sostanziale (libera sia dalle astrattezze che dalla strumentalizzazione imperialistica). Si tratta di un problema non banale che non può essere liquidato con prese di posizione sbrigative.
Per il momento basti ribadire come l’universalismo astratto, oltre ad avere esiti nichilistici sovrapponibili al relativismo, è oggi anche la sponda preferita dell’occidentalismo culturale ed armato. Tanto più per questa ragione è decisivo prenderne le distanze e confutarlo come falso.



Relativismo e universalismo astratto. Un’ unica cultura alla base dell’individualismo e del nichilismo occidentale

A questo punto si può sinteticamente descrivere alla luce di quanto detto finora, quale sia il carattere complessivo della cultura relativistica e universalistica astratta dell’occidente, ovvero, in sostanza quale sia il carattere del cosiddetto occidentalismo.
Si tratta dell’unificazione completata del concetto di libertà liberale classico che dalle sfere dell’economia e della politica si generalizza, nella società contemporanea europea, anche ai costumi e alla morale, dopo la rottura degli argini morali della borghesia (con il suo moralismo religioso e il suo patriarcalismo autoritario) e degli argini resistenziali delle classi subalterne contadine ed operaie (cultura rivendicativa forte, orgoglio di classe, senso del dovere, appartenenza comunitaria tradizionale).
Una volta rotti questi argini borghesi e proletari insieme, le società europee (la società nord-americana ha, da questo punto di vista, tempi e peculiarità proprie), hanno generalmente abbracciato in tutti gli ambiti dell’esistenza il concetto di libertà liberale. A questo si unisce il mito del progresso depotenziato del suo carattere sociale, così come era stato ereditato dall’illuminismo da parte delle  tradizioni socialista e comunista. Il progresso, non più sociale, torna ad essere progresso in sé, riassunto nel termine generico quanto pericoloso di modernità che, nella realtà dei rapporti di forza, finisce per essere un termine edulcorato per indicare il “progresso” nella valorizzazione del capitale. Ogni misura contro il lavoro, di precarizzazione e individualizzazione delle relazioni contrattuali, così come l'apertura dei mercati, le liberalizzazioni e le privatizzazioni sono sempre descritti come progresso e modernizzazione.
Quella parte dei termini “progresso” e “modernizzazione” che faceva riferimento fino a trenta anni fa ad un significato sociale di tipo emancipativo delle classi subalterne (che tutt’oggi continua ad avere nelle “periferie” del mondo), si svuota di contenuto sociale e mantiene il carattere puramente scientifico e apparentemente tecnico che altro non è che l’appannaggio degli interessi capitalistici.
Libertà e progresso, svuotati d’ogni contenuto e ridotti a feticci astratti, procedurali e tecnici, possono essere infine alzati come bandiera dell’occidente civilizzato e possono diventare la base dell’universalismo astratto, ideologia che consola milioni di cittadini occidentali ridotti allo stato plebeo di consumatori di merci. Il relativismo assoluto e totalitario della merce e del denaro come unico parametro e metro di giudizio e paragone, viene compensato dalla patina universalistica-astratta della libertà e del progresso, con i loro miti derivati della democrazia e dei diritti umani.
 La brutalità di una vita piegata ai voleri divinizzati dei cosiddetti “mercati finanziari” giudici di ultima istanza di ogni scelta politica; la miseria di un’esistenza sociale asservita alle logiche mercantili che profanano il sacro e divinizzano il profano. Tutto ciò viene nascosto dal problema (elevato a scontro di civiltà) dei dittatori, dell’integralismo islamico, della tirannia, dei totalitarismi politici, dei partiti unici, dei tentativi tirannici (non sia mai) di sganciarsi dal capitalismo internazionale e di recuperare la sovranità politica (interpretati come casi patologici di società chiusa popperiana che rifiuta il confronto con l’inevitabile destino della cosiddetta globalizzazione). La miseria e il declino culturale e spirituale del mondo occidentale vengono così coperti dagli umanitarismi “missionari”  per la democrazia e i diritti umani nel mondo.
Il relativismo totale dell'Occidente, rappresentazione ideale della sostanza materiale capitalistica, è coperto da un ipocrita universalismo astratto privo di sostanza e (per giunta) armato fino ai denti. 
E così il vero totalitarismo, quello più pervasivo rappresentato dalla sovranità della merce sul mondo è coperto con il ben più debole spauracchio dei totalitarismi politici.


Verso un universalismo sostanziale

L’uso imperialistico disgustoso dell’universalismo astratto della democrazia e dei diritti umani, potrebbe indurre ad una sensazione di rigetto del falso universalismo occidentalista così forte da far abbandonare il bambino (l’universalismo) con l’acqua sporca (il suo carattere astratto e procedurale e il suo uso colonialistico). Tuttavia è bene che alla prima reazione di semplice disgusto segua immediatamente la volontà di pensare alle basi di un universalismo sostanziale, partendo dal fatto che è proprio l’assenza di universalismo la condizione privilegiata per l’insorgere dell’universalismo astratto.
Un universalismo sostanziale non solo è possibile, ma è necessario se non si vuole seguire la corrente che i tempi sembrano imporre ed è altresì necessario se si vuole opporre al sistema di relazioni sociali capitalistiche un sistema di relazioni sociali strutturalmente solidaristiche.
Non vi è, d’altra parte, anticapitalismo coerente senza un universalismo sostanziale e una critica egualmente efficace tanto del relativismo quanto dell’universalismo astratto e formalistico.
Se nella forma di merce è contenuto il relativismo, nella demercificazione della vita sociale deve essere contenuto il suo opposto. Non vi è critica efficace delle relazioni capitalistiche che non si basa su criteri veritativi potenzialmente universalizzabili.
Ogni idea politica che si propone il perseguimento di obiettivi sociali e comunitari forti, per forza di cose dovrà ledere quel principio che tiene insieme in un’unica ideologia distruttiva il relativismo e l'universalismo astratto, ovvero il principio della libertà assoluta. Questo non deve essere taciuto, ma rivendicato. Un principio preminente per forza di cose dovrà ledere un altro principio. Il liberalismo finge che ciò non sia vero e rivendica il suo falso carattere libertario e inclusivo, ma la sua logica sibillina e strumentale alla difesa di relazioni di potere, va respinta e le cose vanno presentate per come sono. Se riteniamo giusto il diritto alla casa, dovremmo ledere la libertà di libera compravendita delle case. Se riteniamo giusti salari più alti, dovremmo ledere orgogliosamente il diritto di pagare salari bassi. Se riteniamo cattiva e umiliante la prostituzione femminile dovremmo ledere due libertà: quella dello sfruttatore di sfruttare la prostituzione, ma anche quella della donna di volersi prostituire per soldi ricevendo per questo un riconoscimento sociale (quand’anche in una libera società senza sfruttamento); se riteniamo pernicioso l’uso della droga e decidiamo di bandirla dovremmo ledere due libertà: quella del venditore di venderla e quella del consumatore di consumarla; se riteniamo buona la sanità pubblica e vogliamo generalizzarla dovremo ledere un’infinità di principi tra cui ad esempio quello di libertà di lucrare sulla sanità privata, quello di libertà del medico di andare a lavorare all’estero per cliniche private per un certo numero di anni etc etc.
La libertà pertanto come concetto in sé, se si parte da una concezione sociale dell'essere umano, non può che essere subordinata a criteri più profondi e sostanziali e a finalità più alte. Ciò non significa certo che la libertà personale si eclissi e cessi di esistere. Significa al contrario che deve essere spogliata della sua assolutezza per interagire con il contesto collettivo e quindi, in conseguenza, realizzarsi in pieno come libertà sostanziale individuale e sociale.
Al criterio capitalistico e liberale della libertà da qualcosa va sostituito il criterio della libertà comunitaria di libertà per qualcosa.

Anche il concetto di progresso materiale deve essere spogliato della sua assolutezza, rivendicando la sovranità umana e collettiva sui suoi meccanismi apparentemente automatizzati e neutrali (ma che neutrali non sono affatto). Il progresso deve rientrare in una decisione di tipo politico e non scaturire da forze impersonali e la stessa decisione politica deve contemperare l’esigenza imprescindibile del progresso materiale e scientifico in termini di sviluppo con altre priorità esistenziali e sociali egualmente politiche (problemi etici di qualsiasi tipo). La scienza, oggi tendente ad assolutizzarsi, deve tornare ad essere sottomessa alle decisioni etiche umane ponderate sulla base di principi diversi, a volte conflittuali, egualmente degni di considerazione. Anche il progresso, quindi, come la libertà, deve essere subordinato ad altri criteri di valutazione e spogliato del suo carattere assoluto e apparentemente neutrale. Deve essere demolito come ideologia e considerato semplicemente come validissimo strumento.
I movimenti comunisti e socialisti del novecento hanno ereditato dalla tradizione illuministica sia il concetto di libertà che il concetto di progresso sottoponendoli tuttavia ad un’efficace e importante critica. In particolare la libertà è stata riabilitata come libertà sostanziale in opposizione alla libertà formale di tipo borghese. L’uomo, cioè, può essere davvero libero se liberato dalla catene dello sfruttamento sostanziale. Allo stesso modo il progresso generico di tipo borghese è stato  da un lato assimilato in senso filosofico come ideologia lineare, da un altro lato reinterpretato come progresso sociale (sia materiale che morale). In particolare comunismo e socialismo, così come tutte le istanze politiche socializzatrici contrapposte materialmente al capitalismo e ideologicamente al liberalismo e ad ogni altra giustificazione filosofica del capitalismo, hanno contrapposto alla libertà e alla giustizia contrattualistica borghese, una libertà ed una giustizia sostanziali possibili solo all’interno di relazioni produttive cooperative ed egualitarie.
Ciò che però è quasi sempre mancato nella tradizione comunista e socialista è l’ammissione esplicita della necessità di agire in nome di un criterio di Bene e non solo di Giustizia (intendendo quest’ultima come criterio di proporzionalità tra lavoro profuso e salario pagato) e di Liberazione dalle catene della dipendenza e dello sfruttamento
Vi è qui un passaggio fondamentale che sarà spiegato accuratamente nei prossimi paragrafi.



Dall’universalismo incompleto della Giustizia di classe e dell’uguaglianza sostanziale, all'esplicitazione del concetto di Bene

Per principio o concetto di Bene come criterio valutativo della realtà umana mi riferisco ad un orientamento che considera possibile interpretare come Buono o Cattivo, sulla base della distinzione tra Bene e Male, tutto ciò che è proprio dell’Uomo e appartiene all’Uomo. Una interpretazione che è possibile solo se si ammette l’esistenza di una Verità sulla condizione umana in generale, sui bisogni dell’Uomo e sulla sua realizzazione esistenziale, ovvero una Verità ontologica sull’essenza generica dell’essere umano, cioè sulla Natura umana.
La comprensione del fatto che la società è classista, che esistono proletari e borghesi, salariati e capitalisti, dominati e dominanti, sfruttatori e sfruttati etc etc.. è chiaramente decisiva sia per la lettura dei rapporti di forza sia per il superamento di approcci moralistici e generalistici di carattere puramente buonista, avulsi dalla realtà e di fatto o indirettamente schierati dalla parte del più forte, o semplicemente incapaci di cogliere i caratteri sistemici delle strutture sociali (in nome di un malinteso ed astratto criterio di Bene alienato dalla realtà). L'analisi strutturale dei modi di produzione e la conseguente forte rilevanza posta sugli aspetti sistemici e gli automatismi delle strutture sociali, veri punti forti e irrinunciabili dell'analisi marxiana, mettono al riparo dal rischio di cadute moralistiche o prive di sistematicità e di capacità di sintesi completa della Totalità.
            Tuttavia la divisione materiale in classi e l'esistenza di forze ed automatismi sistemici e strutturali, non è una buona scusa per fare finta che l’Uomo (Uomo come ente generico, non come persona singola) non esista. L’Uomo esiste eccome ed esiste non solo come maschera di carattere sociale, ma come Uomo in sé.  Per questo il concetto di Bene per l’Uomo, purché inteso e compreso contestualmente alla dinamica classista, diseguale e strutturale della società, è un concetto universalistico dirompente, assai più dirompente dell’universalismo della Giustizia di classe e dell’Uguaglianza sostanziale (concetti, in verità, inclusi essi stessi entro il concetto di Bene).
La preminenza logica del concetto di Bene presuppone per forza di cose un superamento-conservazione dei concetti puri e semplici di Liberazione sociale, di Uguaglianza sostanziale e di Giustizia presi di per sé (concetti centrali, pragmatici ed ideali insieme, della tradizione socialista e comunista).
L’universalismo della giustizia di classe (universalismo della prassi) e dell’uguaglianza sostanziale (universalismo ideale della prospettiva) è stato il punto forte dell’universalismo dei movimenti comunisti e socialisti di stampo marxista. Tale universalismo ha avuto senza dubbio una funzione decisiva e grandiosa nello smascheramento dell’universalismo astratto di tipo borghese  e liberale, poiché ha rivelato la sostanza classista e violenta dei rapporti economici oltre la loro apparente forma armonica e libera. Ha così universalizzato il concetto di giustizia e di uguaglianza in senso sostanziale, rompendo l’ipocrisia della giustizia e uguaglianza formalistica liberale e rompendo altresì le ipocrisie di ogni umanismo destrutturalizzato.
Oltre questa straordinaria operazione di pulizia e di chiarezza sociale compiuta dalla tradizione socialista e comunista (in buona parte sulla base delle categorie marxiane), resta, tuttavia, il problema della debolezza di un universalismo basato sia sulla verità della giustizia di classe o, più in generale, sulla verità della giustizia degli oppressi (che, sia chiaro, hanno il sacrosanto diritto di ribellarsi contro i loro oppressori), sia sull’uguaglianza sostanziale degli uomini.
Due osservazioni devono essere svolte in proposito. Prima di tutto tale universalismo (che pure mantiene una sua forza ineliminabile) conosce una sua specifica degenerazione che è  l’humus culturale di gran parte dell’attuale mondo di sinistra nelle sue varie componenti; inoltre, cosa ben più importante, rimane un universalismo in sé incompleto. Vediamo questi due aspetti separatamente.
La degenerazione che può subire l’universalismo (nella sua componente “pragmatica”) basato sul concetto di Giustizia sociale per gli oppressi e gli sfruttati, è quella di cadere in una forma di mitologia moralistica a base sociologica che esalta la figura dello sfruttato come motore assoluto della storia e portatore incondizionato della verità e del trionfo delle ragioni dei deboli sui forti. Si tratta di una impropria traduzione morale delle categorie sociali marxiane. Da ciò derivano i numerosissimi miti moralistici del Soggetto rivoluzionario e-o ribelle, non più visto in termini scientifici marxiani come elemento oggettivo intermodale (che può oggettivamente rovesciare il modo di produzione capitalistico), ma inteso moralmente nelle sue innumerevoli specificazioni (classe operaia, terzo mondo, dannati e ultimi della terra, migranti etc etc) come portatori della ragione e della giustizia. La versione degenerata del mito sociologico moralizzato è il mito della ribellione in sè, della rivolta contro il potere in sè, che diventa un concetto romantico che si generalizza e si astrae dalla stessa realtà. Buoni e cattivi, giustizia e ingiustizia, ragione e torto diventano concetti sociologicamente determinati.        
Le conseguenze farsesche di questa mitologia sono quelle dell’ultra-sinistra moderna che (andando persino oltre lo stesso determinismo sociologico) abbraccia la ribellione a priori senza scomodarsi di intenderne il ruolo oggettivo, le ragioni, i metodi, e, in ultimo (in termini totalmente anti-marxisti) neanche la stessa composizione di classe. E’ l’apologia della rivoluzione intesa in termini di movimento puro senza fine, quasi come processo estetico, che va a colmare probabilmente il tragico vuoto politico e di prospettive che si respira in questi anni nella maggior parte dei paesi occidentali.
E’evidente che si tratta di una ricaduta totale nel peggiore degli universalismi astratti del tutto speculare a quello liberale dei diritti umani e della democrazia (tinteggiato però di toni romantici e ribellistici).
L’aspetto invece più importante della questione, riguarda il fatto che l’universalismo della Giustizia degli sfruttati e dell'Uguaglianza sostanziale, è di per sé un universalismo incompleto, poiché ha una base puramente sociologica (la Giustizia) e si articola su un terreno fondamentalmente economico (l'Uguaglianza). Ha pertanto una valenza limitata ed uno spazio angusto. Con la scusa (peraltro di per sé corretta) che la Verità ed il Bene possono essere strumenti classisti di falso universalismo usati da "preti, intellettuali di regime ed agenti del capitale", che occultano la sostanza della divisione in classi della società, l’universalismo pragmatico della Giustizia degli oppressi finisce per autolimitarsi, riducendo la stessa portata universale della trasformazione sociale. L’universalismo (prospettico) dell’Uguaglianza sostanziale, invece, ha da un lato una portata più universale (non avendo una base sociologica pura), ma é però esso stesso limitato dal proprio terreno preminentemente economico.
L’anticapitalismo e il comunismo non possono reggersi esclusivamente né su un universalismo a base sociologica (la Giustizia di classe), né su un universalismo a base esclusivamente economica (l’uguaglianza sostanziale). L’universalismo, così inteso, per quanto benemeritamente sostanziale, rimane incompleto e ridotto.



Per una metafisica sociale e personale del Bene come base di un pensiero forte. Bene sostanziale come soluzione della falsa opposizione tra nichilismo e moralismo.


Il comunismo, se non ridotto a pura pratica di equa distribuzione delle risorse materiali in base al lavoro prestato (cosa senz’altro fondamentale, ma che è soltanto una parte del problema della trasformazione sociale), non può che agire in nome di un riferimento al Bene di tutti. Di fatto lo stesso comunismo storico e politico ha sempre agito in nome del Bene. Anzi, paradossalmente, spesso lo ha fatto persino troppo, senza cioè i dovuti riguardi per le libertà e le autonomie personali e per una maggiore democratizzazione sostanziale.
E tuttavia, per ironia della sorte, il comunismo ha sempre respinto una metafisica umanistica del Bene in nome di una metafisica “materiale” della Giustizia di classe (ritenendo la metafisica del Bene un residuo reazionario per ingenui religiosi, per idealisti o per intellettuali al libro paga dei servizi segreti).
Il concetto di Bene come concetto strutturale (e non puramente individuale, opinionistico e spontaneo) è invece un concetto guida irrinunciabile. Allo stesso tempo il suo abuso è gravido di conseguenze pericolose. E’ cioè, da una parte, una base irrinunciabile per un pensiero universale e veritativo, ma allo stesso tempo se ipostatizzato o frettolosamente ingigantito ed esteso diviene la base della soppressione del libero pensiero e dell’autonomia personale assumendo le sembianze del moralismo formale, bigotto e coercitivo (nemico giurato della Verità).
D’altronde è proprio con la scusa del rischio della soppressione dell’autonomia dell’individuo e del rischio di scadere nel moralismo, che il concetto di Bene è stato derubricato, dalla cultura dominante liberale (in tutte le sue varianti), a codice dittatoriale degno degli Stati totalitari, o meglio ancora degli Stati etici dittatoriali (dove il termine etico è usato spregiativamente, magari in diretto riferimento alle tentazioni fasciste). Eppure non vi è Stato più etico di uno Stato socialista e comunista che dirige una società alla luce di istanze solidaristiche e di pianificazione.
Se il comunismo, come pensiero politico, si appropriasse di una metafisica sociale del Bene ben ponderata e moderata abbandonando la Metafisica (parziale e sociologica) della Giustizia (non abbandonando la giustizia sostanziale, ma la metafisica “materialistica” della giustizia) ne avrebbe tutto da guadagnare: in primis si spoglierebbe della pesante eredità di quelli che altro non sono che elementi liberali e positivistici che lo depotenziano nel suo significato veritativo ed universale e lo possono ridurre a fenomeno puramente economico o ancor peggio a fenomeno puramente rivendicativo costruito sulla cultura della rivalsa; inoltre agendo ed ammettendo esplicitamente di agire sulla base di un criterio universale di Bene politico e sociale, il comunismo sarebbe sicuramente più in grado di riflettere sui limiti stessi dell’uso del criterio di Bene collettivo evitando o limitando fortemente le invadenze e le pratiche coercitive a ciò connesse. Solo chi cerca di agire eticamente e moralmente, del resto, può imparare a conoscere ed evitare le degenerazioni che si risolvono in moralismo formale e bigotto. Chi nega invece un orizzonte morale ed etico alla vita oscillerà in perpetuo tra nichilismo e moralismo (i due estremi opposti complementari che si completano vicendevolmente per riempire i propri vuoti speculari).
Una metafisica del Bene ben intesa, a ben vedere, non è nient’altro che una metafisica di orientamento che sappia ponderare in maniera equilibrata le sue pretese universali fondamentali con il rispetto delle particolarità dei gruppi e degli individui, che sappia quindi ponderare l’universalità con la libertà, l’assoluto con il relativo, la persona con la comunità e la comunità con l’universalità.
La metafisica del Bene permette di affermare che qualcosa è buono per l’uomo indipendentemente dal suo desiderio contingente e individuale temporaneo. Permette allo stesso tempo di fondare una società su criteri non solo di giustizia, ma anche di buon esempio, virtù, senso del limite, solidarismo strutturale, cura dell'immanenza e della trascendenza come pratiche sociali e comunitarie e non soltanto puramente individuali (tutte cose che una pura Metafisica della Giustizia di per sé ignora). Nel concreto solo una Metafisica del Bene sociale e personale può permettere (senza cadere nel moralismo) di bandire il consumo di droghe devastanti come pratica antisociale e anti-personale o la prostituzione per soldi come pratica umiliante per la dignità umana; oppure può permettere di considerare l'educazione, la sessualità, la fine della vita (e tutte le enormi problematiche a ciò legate) e infine, le stesse necessità spirituali dell'uomo come fatti sociali di rilevanza etica non solo personale, ma anche collettiva. Più in generale solo una metafisica del Bene sociale e personale può dare una sostanza etico-politica a tutto ciò che non risponde semplicemente al criterio valutativo di Giustizia-Ingiustiza (formalistico liberale o sostanziale socialista che sia).
Una metafisica del Bene permette inoltre di strutturare il Bene all’interno di una tradizione materiale e ideale che diviene sistemica facendo in modo che essa non sia relegata soltanto ad una scelta e una scoperta esclusivamente personali. Tipico del liberalismo e spesso anche di un certo cattolicesimo ultra-personalistico è relegare al piano personale la virtù considerando il piano comune e collettivo come pura materia neutrale priva di forza espressiva, provocando così una grave scissione tra piano sociale e piano personale.
Allo stesso tempo, trattandosi di una metafisica ben ponderata (non invasiva dunque), la Metafisica del Bene permette di tenere distinti (ma non separati) il terreno personale e il terreno comune, sapendo ad esempio stabilire un confine (esso stesso etico e cosciente) tra scelta personale e scelta comune e sapendo altresì comprendere la centralità della persona e del suo cammino esistenziale per l’acquisizione del Bene stesso; sapendo, in definitiva, intendere “personale” e “comune” come piani distinti, ma non separati e sfuggendo contemporaneamente sia il pericolo dell’annullamento di una metafisica sociale (relativismo sociale in tutte le sue forme) sia il pericolo opposto dell’invasività e dell’annullamento della persona (ipostatizzazione assoluta della metafisica sociale del Bene ed annullamento della sfera personale, con possibile insorgenza del relativismo dei costumi e della morale come naturale risposta oppositiva).
E' evidente che, una volta posta la necessità di una Metafisica del Bene, il rischio di una ricaduta nel relativismo è un rischio che può insorgere da due direzioni, nel momento in cui la Metafisica del Bene si riduce a Metafisica parziale solo personale o solo sociale. In questi casi il relativismo si appropria della dimensione sociale o della dimensione personale lasciando campo libero al moralismo, che altro non è se non la realizzazione parziale e scissa di una Metafisica privata della totalità. Soltanto una Metafisica del Bene personale e sociale può fungere da vero antidoto verso il rischio di una ricaduta nel relativismo e nel suo contraltare: il moralismo.


Metafisica del Bene e unificazione dei concetti di Bene e Giustizia.


E’ chiaro che una metafisica del Bene, personale e sociale, è a priori incompatibile con il capitalismo come modo di produzione che ha e non può che avere come base logica e filosofica di legittimazione il nichilismo (che è per definizione al di là del bene e del male). Ogni tentativo di conciliare il capitalismo (tanto più il capitalismo privo di compromessi politici forti e di mediazione sociale) con una metafisica del Bene finisce per risultare non soltanto contraddittorio, ma anche enormemente pericoloso. Sarebbe infatti destinato a scadere nel moralismo, nella scissione del piano sociale da quello personale e nella legittimazione di fatto delle strutture sociali nella loro ingiustizia, nel loro classismo e nel loro nichilismo strutturale. Si avrebbe cioè esattamente quella situazione di ipocrisia sociale e morale che ha spinto comunisti e socialisti a contrapporre una metafisica secolare della Giustizia di classe all’ipocrita metafisica del Bene, coperta viscidamente dal falso cristianesimo, dei sacerdoti e dei falsi universalisti della società classista capitalistica. Ma come al solito con l’acqua sporca (uso moralistico e classista del Bene e metafisica ipocrita del Bene) è stato buttato via anche il bambino (la metafisica del Bene in generale).
Al rovescio, ogni tentativo di proporre un’alternativa strutturale solidale al capitalismo (società socialiste e comuniste) private di una metafisica sociale del Bene è destinato ad essere fagocitato all’interno delle stesse categorie concettuali proprie del liberalismo  (ben adatte invece al capitalismo), ed a scontare un'eguale scissione tra piano personale e piano sociale, piano economico (egualitario e quindi necessariamente ispirato ad un criterio forte di Bene, che lo si ammetta o no) e piano non economico.
Bene e Giustizia in verità si dovrebbero fondere in un unico concetto sintetico, impedendo contemporaneamente sia le fughe sociologiche e deterministiche (che temono il Bene come paravento idealista interclassista), sia le fughe moralistiche e de-strutturate (che concepiscono la Giustizia in termini interni alle strutture sistemiche.
D’altro canto il Bene senza Giustizia diventa moralismo consolatorio e la Giustizia senza Bene diviene una pura pratica di equa distribuzione e di equa corrispondenza tra dare e avere.
Va detto comunque che in termini puramente logici il Bene precede la stessa Giustizia che da esso scaturisce ed in esso si struttura. La stessa possibilità di pensare la Giustizia ci è data dal discernimento tra Bene e Male. In questo senso un concetto di Bene inteso correttamente ed esaustivamente dovrebbe includere in sé il concetto di Giustizia ed entrambi dovrebbero essere la base ideale per un universalismo sostanziale.


La Metafisica del Bene e il pensiero di Marx

Il rifiuto (implicito) di una metafisica del Bene nel pensiero di Marx ha probabilmente due origini: la prima è stata già tracciata nei paragrafi precedenti e concerne il problema del rapporto tra Giustizia-Uguaglianza e Bene. Si tratta del fatto che il Bene senza una contestuale analisi strutturale della società, si trasforma in un concetto parziale e moralistico al servizio, spesso e volentieri degli interessi della classe dominante. Il rifiuto di tale categoria come riferimento ontologico è quindi da questo punto di vista fin troppo spiegabile e storicamente sensato. Tuttavia, come già detto, l'errore è rinunciare alla categoria in sé per colpa del suo evidente uso moralistico e classista degenerato.
Vi è però un secondo problema, forse più importante e decisivo. Si tratta dell'essenza stessa del sistema filosofico di Marx all'interno del quale non vi è spazio per una concezione sistematica del rapporto tra individuo e collettività. E' un problema enorme al quale in questa sede si accennerà soltanto.  
Nel sistema marxiano, interpretato globalmente, non vi è spazio per una concezione del rapporto tra individuo e comunità fondata sulla distinzione e insieme la reciproca interdipendenza e unità tra persona e comunità, tra singolo e forze sistemiche (distinti, ma interconnessi). Questo perché l'immensa (e insuperabile) teoria strutturale dei modi di produzione concepisce (giustamente!!) la persona come maschera sociale, e (in quella sede) fa benissimo a farlo per non scadere in spiegazioni moralistiche dei processi sociali, cogliendoli nello loro oggettività (in questo sta la grandezza inestimabile dell’analisi dell’economista-filosofo di Treviri).
 Tuttavia Marx non lega a tale insuperabile teoria strutturale, una autonoma teoria filosofica della natura umana e della persona (unificando poi il tutto in un’unica teoria filosofica complessiva), ma subordina quest'ultima alle stesse conclusioni “strutturalistiche” tracciate nella teoria strutturale dei modi di produzione. Ovvero propone una concezione dell'Uomo in termini integralmente storicistici (e quindi nichilistici).
Tale forma di determinismo è alla base di una proposizione del comunismo in termini integralmente economici come semplice rovesciamento del capitalismo, seguito dallo spontaneo instaurarsi di libere associazioni di produttori, senza Stato, senza potere - la dittatura del proletariato è una fase temporanea inter-modale - (che non sia la mera amministrazione delle cose), senza intermediazioni a carattere etico e strutturale. Nel comunismo realizzato, non solo lo Stato, ma la Politica, il Diritto, la Filosofia sono destinate a dissolversi nella realizzazione della definitiva riconciliazione dell'Uomo con sé stesso e con la Natura. Si tratta di un'utopia economica e, paradossalmente intimistica e individualistica (come rovesciamento di un iniziale approccio iper-sociale), in cui la mediazione strutturale di tipo sociale e politico può sparire per la definitiva riconciliazione dell'individuo con la società.
E'chiaro che, entro le coordinate di un siffatto comunismo, lo spazio per qualsivoglia metafisica del Bene sociale e personale non può esservi, poiché non vi sarebbe a priori alcuna necessità di una metafisica strutturale che elevi l'idea di Bene a riferimento sistemico. Il Bene nel comunismo marxiano non ha bisogno di strutturazione, poiché è acquisizione naturale di uomini liberi cooperanti.
Paradossalmente,  da questo punto di vista (e solo da questo punto di vista) siamo di fronte ad una concezione non troppo dissimile (seppur opposta nei punti di partenza) dalla concezione espressa da un certo cristianesimo ultra-personalistico (da distinguere dal cattolicesimo sociale) che ignora (o meglio ignora selettivamente) le forme sociali nella loro sostanza etica totale, e non troppo dissimile dalla concezione dello stesso liberalismo.
Nel pensiero di Marx la persona si dissolve nelle forme sociali del capitalismo, mentre le forme sociali si riconciliano totalmente, annullandosi (ovvero destrutturandosi e perdendo di consistenza sistemica) con la persona nel comunismo realizzato, che è infatti il rovesciamento puro del capitalismo e la soluzione finale della contraddizione tra individuo e società. Pertanto non v'è spazio per un rapporto dialettico e complesso tra individuo e comunità. Si passa cioè dall’assorbimento della persona nelle strutture sociali (capitalismo) alla sua emancipazione nella liberazione da queste ultime (comunismo realizzato).
 Nel cattolicesimo “ultra-personalista” (selettivamente), così come nel liberalismo (integralmente), le forme sociali sono invece a priori separate e spogliate di sostanza etica ed è solo la persona (nei rapporti con l’altro) o l’individuo (assolutizzato) ad essere titolare della moralità (che fa tutt'uno con l'eticità). Anche in questo caso non vi è spazio per un rapporto etico dialettico tra strutture sociali (dotate esse stesse di sostanza etica propria e strutturale) e persona (l'elemento morale fondamentale). Non vi è spazio cioè per una Verità sociale e personale insieme distinta e unificata.
Pur partendo da opposti punti di partenza il pensiero di Marx, il liberalismo e il cattolicesimo ultra-personalista, condividono l'impossibilità di definire un rapporto dialettico di interdipendenza tra individuo e comunità. Proprio per questa ragione condividono l'impossibilità di fare propria una metafisica strutturata del Bene insieme sociale e personale. Il liberalismo non può per definizione avere una metafisica del Bene, poiché è fondato su un concetto astratto di tipo relativistico, ovvero quello di Libertà assoluta. Il cattolicesimo politico, nelle versioni ultra-personalistiche integrate di fatto nel paradigma liberale, propone una metafisica del Bene personale scissa però dalle dinamiche sociali (considerate solo selettivamente per ciò che concerne i cosiddetti temi etici - aborto, eutanasia, sessualità etc).
 Il pensiero di Marx rinuncia di fatto ad una metafisica del Bene per aver sottomesso l'intero sistema filosofico alla logica della teoria strutturale dei modi di produzione, isolando la persona ad ente morale insieme inglobato nelle e separato dalle strutture sociali, senza possibilità di un’unità nella distinzione tra persona e società e quindi di una comunicazione costante tra il piano etico personale e sociale-strutturale. L’aspetto critico del pensiero di Marx non è tanto un presunto schiacciamento della persona e dell’Uomo nel mostro economicistico della società collettivizzata e anonima (critica totalmente superficiale e poco incisiva condivisa dai liberali e da buona parte dei cattolici); l’aspetto critico è, al contrario, la mancata dialettizzazione tra sfera personale e sfera sociale dovuta, non ad un eccesso di collettivismo de-individualizzante, quanto, all’opposto, ad un salto nel vuoto dall’individuo alla totalità universale, ovvero ad una personalizzazione dell’universale senza mediazioni (o se si preferisce ad un’universalizzazione del personale).
Paradossalmente, come visto, si tratta dello stesso identico vizio filosofico dei critici radicali del marxismo, liberali e cattolici ultra-personalisti.  Mentre però questi ultimi neutralizzano a priori l’eticità delle strutture sociali (e quindi non hanno alcuna intenzione di modificarle - di qui la loro totale adesione al capitalismo-) il pensiero di Marx invece (e qui ovviamente sta la gigantesca differenza) ne esalta il carattere condizionante e determinante (in negativo), e ne auspica pertanto la neutralizzazione e la destrutturazione finale, che potrà avvenire soltanto nella liberazione sostanziale, quella del comunismo realizzato.
Dal momento però che le strutture sociali non scompariranno mai in quanto strutture condizionanti (poiché permanenti  e parti integranti del rapporto contraddittorio e complesso tra Uomo e società), l’unica possibilità (scartando a priori la ricaduta nelle categorie sociali e istituzionali capitalistiche, per quanto socialdemocratiche possano essere)  è far si che esse siano buone secondo la natura Umana e i Bisogni umani. Buone in quanto strutture sociali sistematizzate e portatrici di eticità sociale e comunitaria (materiale e ideale) che si propaga verso le stesse persone unificando (nella distinzione e nella reciproca interazione infinita) etica sociale e moralità personale, sfuggendo in tal modo lo spettro del moralismo sociale e insieme del socialismo de-eticizzato. Strutture sociali, infine, che siano buone senza che tale bontà diventi una soluzione messianica e secolare del male umano. Una bontà misurata, quindi, che non travalichi, affondandolo, lo spazio della singola persona, ma lo contamini e lo guidi.
Alla luce di queste considerazioni si può dire che, soltanto l'innesto di una metafisica del Bene e della Verità, sociale e insieme personale, all'interno dello strutturalismo marxiano (ovvero all’interno dell’irrinunciabile comprensione della centralità delle forze sistemiche materiali e non), può fungere da terreno ideale per un pensiero politico di opposizione radicale alle dinamiche capitalistiche nonché per un universalismo forte di tipo sostanziale.


La Metafisica del Bene e il comunismo storico novecentesco

Il comunismo storico novecentesco (da tenere ben distinto dal pensiero di Marx), così come tutte le società che hanno posto come principio irrinunciabile un dominio e un controllo politico forte sui meccanismi distruttivi del sistema di sfruttamento e concorrenza e sulla dissoluzione dell’anarchia sociale, ha implicitamente fatto ricorso ad una metafisica sociale del Bene, inconsapevolmente o meno che fosse. E, al di là della giustissima critica delle invadenze e delle gravi illiberalità commesse, ha fatto benissimo a servirsene (anche se per questa ragione ha dovuto sorbirsi le malintese critiche libertarie confusionarie) poiché una metafisica, quand’anche malintesa, del Bene sociale e dell’equilibrio, è pur sempre superiore all’apologia del nulla e dell’abolizionismo sociale caotico (che stanno invece benissimo con il capitalismo, ed è per questo che, anche quando assumo i panni dell'anticapitalismo, sono ampiamente tollerati dagli apparati politici e mediatici di controllo delle società occidentali)
La mancata ammissione di ciò che è invece ovvio (ovvero che il Comunismo è possibile soltanto alla luce della centralità del criterio di Bene e di una metafisica del Bene), ha portato, nelle società del comunismo storico novecentesco a due ordini di conseguenze: da un lato l'assunzione di  inutili ed odiose posizioni quali l’ateismo di Stato o le crociate anti-religiose (compensate in parte e fortunatamente da un certo pragmatismo tradizionalistico successivo, come nel caso dello stesso stalinismo); da un altro lato all'incapacità nel saper limitare le invadenze impositive del sistema politico collettivo, paradossalmente proprio in nome di un malinteso ed iper-esteso criterio di Bene secolarizzato e nascosto sotto il nome di Giustizia proletaria.
L’eccesso dispotico del socialismo reale, in questa chiave di lettura, non è stato il frutto di una concezione politica assolutistica veritativa esplicita (idea questa condivisa dall’ultra-sinistra libertaria e dai liberali e neo-liberali); è stato, al contrario, il frutto della mancata ammissione esplicita di riferimento ad una metafisica sociale complessiva, della sua contestuale copertura con una metafisica “materiale” parziale della Giustizia (apparentemente oggettiva e naturale) e la conseguente incapacità di limitare le stesse pretese della Metafisica sociale di cui di fatto si faceva (correttamente) uso.
D’altro canto la non ammissione esplicita del ricorso ad una metafisica del Bene (e la conseguente mancata riflessione moderata e “democratica” sul concetto di Bene) conduce necessariamente a due strade senza ritorno: o quella del riassorbimento entro i sistemi  e le categorie capitalistiche (per  perdita di vigore etico e morale) o quella della paradossale ipostatizzazione della stessa metafisica del Bene (mascherata nominalmente da metafisica della Giustizia) e di invadenza nella vita delle persone (poiché un concetto che non sa di esistere e non ammette di esistere non può neanche riflettere su di sé e, per definizione, si manifesterà di fatto in maniera parossistica ed estrema). Entrambe le strade sono accomunate dalla perdita del rapporto di distinzione e insieme reciproca influenza della sfera personale e della sfera comune e sociale. In un caso vi è un Bene gigantesco e iper-esteso (che per di più rifiuta di definirsi tale e si maschera di Giustizia materiale pura) che invade le due sfere soggiogandole. Nell’altro caso, il peggiore, (quello del ritorno alle categorie del capitalismo) vi sono due possibili esiti specifici: o il Bene  è relegato (liberalismo condito da ipocrisie religiose e morali) alla dimensione personale mentre si violenta, neutralizzandola, quella sociale; oppure (liberalismo puro) il Bene semplicemente scompare. Che dire? Meglio le ipocrisie religiose e moralistiche del nulla, ma in tutti i casi pur sempre di un ritorno al relativismo e al nichilismo si tratta. Che sia un'ipocrisia nichilistica o un nulla nichilistico in fondo cambia poco.



Bene e verità come concetti rivoluzionari alla base di un universalismo sostanziale

Vediamo, a questo punto, in che senso possiamo considerare Bene e Verità i due concetti alla base di un universalismo sostanziale.
L’esistenza della Verità è un presupposto della stessa possibilità di definire il Bene. Il Bene, d’altro canto è il principio primo che consente di risalire all’esistenza stessa della Verità come parametro universale.
Bene e Verità, così concatenati, sono i due cardini di un possibile universalismo sostanziale. In quanto tali sono due concetti rivoluzionari che sconvolgono l’assetto delle relazioni capitalistiche fondate sul relativismo e l’universalismo astratto.
Ma come e perché il criterio di Bene (a sua  volta costituito sull’esistenza di una Verità ontologica sull’essere umano e la sua natura) può fungere realmente da base per un universalismo sostanziale?
Il concetto di libertà assoluta (con i  suoi corollari concetti di democrazia, diritti umani etc etc) è di per sé nichilistico, anche quando si traveste da valore universale. Questo perché la libertà in sé è il nulla ed è il regno del relativo. Una volta posta la libertà infatti ogni istanza relazionale umana è relativizzata e ridotta ad opinione. La libertà in sé non include alcun principio sostanziale. La sua assolutezza significa esattamente la professione di impossibilità di conoscenza del bene per l'Uomo in generale e la sua riduzione a parametro relativo variabile da individuo a individuo. Per questa stessa ragione il criterio di libertà assoluta preclude un confronto tra culture e tra civiltà.. Non scavando nella sostanza dei rapporti umani e sociali, non può porsi come parametro per il confronto universale di diverse forme culturali.
Il criterio di Libertà assoluta è dunque un criterio puramente relativistico.
I criterio di Giustizia degli sfruttati e di Uguaglianza sostanziale sono invece criteri sostanziali (dunque non relativistici), ma, come visto, presi di per sé hanno carattere parziale e incompleto poiché costruiti su basi puramente sociologiche ed economiche.
Diversamente il criterio di Bene per l'Uomo in relazione alle sue caratteristiche e suoi ai bisogni universali può porsi come criterio per una lenta e faticosa universalizzazione sostanziale. E lo può fare solo una volta che è espresso come sintesi unitaria di Bene – Giustizia - Uguaglianza, una volta cioé che abbia fatto i conti con il carattere classista della società capitalistica (accogliendo la logica della teoria strutturalistica marxiana), disvelando la natura strumentale ed astratta dell’universalismo liberale e borghese. In quel momento e solo in quel momento si può porre come principio universale che superi, demolendola, l’astrattezza delle relazioni sociali apparenti (universalismo borghese e universalismo moralistico) e superi altresì, conservandoli ed includendoli in sé, il sociologismo dell’universalismo della Giustizia di classe e il carattere economico dell’Uguaglianza sostanziale.
E’ bene, a questo punto, specificare una cosa. Bene e Libertà assoluta si pongono in totale antitesi non in quanto valori (la libertà è e resta comunque un valore fondamentale), ma in quanto principi guida di orientamento per un pensiero universale. Il criterio guida di libertà assoluta è un' esplicita asserzione di sospensione del giudizio sull'Uomo in generale, ovvero di relativismo (mascherato da universalismo), poiché rimette la stessa definizione di bisogni umani e di realizzazione umana al totale arbitrio dell'opinione individuale. Al contrario porre il criterio del Bene come criterio preminente significa professare la conoscibilità generale di tali bisogni e di tale realizzazione.
Naturalmente la libertà e il diritto come principi non perdono di sostanza e forza espressiva (e universale) una volta innestati nel criterio più generale del Bene. Al contrario essi acquistano concretezza e perdono quel carattere assoluto che finisce per rivoltarsi contro sé stessi. D’altronde è facile osservare che la libertà assoluta finisce sempre per negare la libertà così come il diritto assoluto finisce per negare il diritto in quanto contraltare logico del dovere e della partecipazione attiva. Libertà e diritto entro la categoria di Bene, invece, diventano essi stessi concetti portanti di qualunque pratica politica e guai a considerarli zimbelli borghesi privi di consistenza (come spesso ha fatto erroneamente  il comunismo storico novecentesco)! Si costituiscono, anzi, nel loro carattere sostanziale come concetti portatori di possibili principi universali di tipo sostanziale.
Vediamo di spiegare meglio, ora, in che senso e in che misura il Bene è conoscibile e universalizzabile. Si tratta di una conoscibilità che può partire da asserzioni molto generali per poi scendere poco a poco nel particolare secondo un processo di continua e prudente specificazione e cauto avvicinamento alla realtà più immediata. Vediamo come tale “metodo” può essere meglio esplicitato.
Se parto, ad esempio, dal presupposto minimo che l' uomo è: “un essere sociale e comunitario che non realizza sé stesso fuori dalla comunità in totale isolamento”, posso giudicare come bene l'inclusione e come male l'esclusione delle persone all'interno dei rapporti sociali e porre questa come possibile verità universale. Si tratta di un primo passo verso una verità minimalista (che va oltre le verità biologiche), ma che consente iniziali confronti e avvicinamenti tra civiltà che intendono e formalizzano la sostanza dell'inclusione in maniera anche estremamente diversa. Ad un livello di questo tipo naturalmente mi troverei ad individuare il criterio di inclusione in fenomeni tra di loro lontanissimi, dalla tribù solidaristica e inclusiva che pratica comportamenti cannibaleschi con tribù rivali, alla teocrazia medioevale, fino alla socialdemocrazia svedese (ma non potrei inizialmente che accontentarmi di questo, per non scivolare fin da subito nel pericolo dell'universalismo astratto e frettoloso). Se poi alla prima definizione aggiungessi che: “l'uomo ha una dimensione sociale e personale. Dimensioni che sono distinte, ma non separate e continuamente interconnesse” e che “pertanto la vita sociale, così come la vita personale, ha una sostanza etica che se negata conduce l'uomo alla sofferenza e alla scissione”, e ponessi questa come seconda possibile verità universale sull’Uomo, avrò un secondo punto forte (ancora minimo) per confrontare le diverse formalizzazioni concrete con cui le diverse civiltà realizzano o non realizzano tale sostanza della natura umana.
E così proseguendo verso definizione sempre meno generali universalizzabili che possono assurgere al piano di verità generali sull'uomo, come ad esempio: “l’uomo è un essere spirituale che deve dotare di senso l’esistenza e che è portato per natura a porsi il problema della propria fine”; o ancora “l’uomo ha una naturale spinta realizzativa di tipo solidale, ma pur tuttavia presenta spinte contrastanti di tipo egoistico che possono comunque essere messe in secondo piano”; o ancora “l’uomo ha bisogno di dotare di senso il proprio lavoro alla luce di risultati visibili e socialmente condivisi”, o ancora: “la solidarietà  per essere interiorizzata e goduta, deve avere un fondamento personale cosciente ed un fondamento sistemico strutturale”, etc etc....fino ad arrivare ad asserzioni specifiche forti come “L'arricchimento sulle spalle altrui è cattivo per chi lo subisce, ma anche per chi lo pratica”; “il lavoro è un diritto e un dovere”; “la concorrenza come principio sociale preminente è deleterio e disumanizzante”; “relazioni produttive cooperative sono buone”; “il sistema sanitario pubblico, gratuito e universale é buono” etc. etc.
E' chiaro che più specificherò le asserzioni più sarà difficile che esse siano portatrici di verità generali. Più invece le generalizzerò più l'universalismo sostanziale diverrà di tipo debole.
E' senz'altro estremamente difficile trovare un sano equilibrio tra esigenze veritative ed universalistiche forti e rischio di perdita di forza generale delle asserzioni potenzialmente universali (ovvero di arbitrio unilaterale della stessa verità). Senz'altro si tratta di un problema enorme! Forse del più grande problema della filosofia! Tuttavia ciò che conta è l'accettazione della logica di fondo, della tendenza. L'ammissione cioè della possibilità di un universalismo sostanziale basato su una nozione di Bene a sua volta dipendente da asserzioni Vere sui bisogni umani e sulla sostanza della realizzazione della vita dell'Uomo.
Se esiste il Bene in senso generale, esso esiste come Verità. Se esiste la Verità, allora esiste il Bene come principio universalizzabile.



Sovranità comunitaria e universalismo. L'universalismo sostanziale come faticosa, ma necessaria soluzione dell'apparente antinomia. Comunitarismo universale come forma di universalismo sostanziale.

L’universalismo sostanziale si pone in contrasto con il relativismo e l’universalismo astratto.
Si può fondare saldamente sulla coppia concettuale (reciprocamente dipendente) di Verità e Bene.
Proprio in quanto sostanziale l’universalismo vero aborrisce ogni universalizzazione della forma, delle procedure e tanto il paradosso dell’“universalizzazione del relativismo”.
L’universalismo sostanziale getta un ponte tra individuo e comunità; tra comunità e universalità ed infine, solo grazie a tale mediazione, tra individuo ed universalità (poiché l’individuo senza comunità è il nulla astratto). L’universalismo sostanziale non sopporta la furia del dileguare individualistica e abolizionistica dell’universalismo astratto poiché accetta l’intermediazione delle comunità, dei gruppi e delle collettività, pur negando loro l’isolamento in cui le relega il relativismo.
L’universalismo sostanziale in tal senso è la base per un Comunitarismo universale che è a sua volta la base filosofica di un comunismo e di un anticapitalismo radicale pensati in termini di rifiuto sia delle astrattezze relativistiche liberal-democratiche, sia dei riduzionismi sociologici ed economici di un determinato comunismo, in nome di un’unità inscindibile tra piano materiale e piano ideale e di un’unità nella distinzione tra individuo e comunità e tra comunità ed universale.
Il problema della sovranità dell’individuo e della comunità rispetto all’universalità rimane ovviamente un problema gigantesco. Da un lato infatti si riconosce la sovranità dell’individuo e della comunità rispetto ai giudizi astratti e perentori pseudo-universalistici che vorrebbero imporre a tutte le collettività, a tutti gli Stati e a tutti gli individui del mondo un unico orizzonte incubesco basato sull’uniformazione coatta dell’esistenza sulla base di principi astratti. D’altro canto si riconosce l’universalità sostanziale del genere umano e si rifiuta il giustificazionismo relativistico, anche quello comunitario delle tradizioni e dei costumi (per cui tutto è lecito in quanto relativo, dall’infibulazione alla scambio di prodotti finanziari derivati, dal rogo delle vedove alla negazione del diritto alla sanità).
Una breve parentesi in proposito merita di essere aperta. Si tratta di un problema di grande difficoltà immediatamente connesso a queste considerazioni: ovvero il problema, oggi molto attuale, della violazione della sovranità degli Stati in nome di principi universalistici (diritti umani, interruzione di supposti massacri di civili, democrazia e via dicendo). In proposito occorre saper distinguere una situazione idealtipica dalla realtà dei rapporti di forza.
In un mondo teorico di comunità di pari e di eguaglianza reale tra Stati, il problema dell’ingerenza andrebbe risolto cautamente tramite la ricerca di un corretto equilibrio sostanziale tra rispetto della sovranità e necessità di universalismo (e il problema rimarrebbe comunque aperto e bisognerebbe rimettersi a prudenti valutazioni caso per caso). Nel mondo reale capitalistico segnato da specifici rapporti di forza tra Stati, gruppi, classi, ed in particolare dalla centralità della categoria di Imperialismo (proprio una delle categorie oggi più rimosse dal dibattito pubblico), è evidente che la Sovranità degli Stati minacciati di ingerenza esterna dovrà necessariamente divenire principio di difesa della autonomia e dell’indipendenza anche a costo di una parziale perdita temporanea ideale di universalismo. Naturalmente il principio di sovranità non può comunque fondarsi su sé stesso e diventare assoluto, pena la caduta inevitabile nel nichilismo e nel relativismo. Per cui anche nei rapporti di forza reali, rimane importante la valutazione caso per caso (l’intervento cubano in Angola o dell’Unione Sovietica in Spagna, per intenderci, ha caratteristiche del tutto diverse dagli interventi angloamericani in Iraq, Afghanistan, Libia, Serbia etc. etc.). Si può dire comunque senza grande margine di errore che allo stato attuale il 95% delle ingerenze (ovviamente non reciproche e volute) di uno Stato negli affari di un altro Stato ha natura di dominio mascherata da umanitarismo. Pertanto il principio di sovranità degli Stati, come hanno ben capito tutti i governanti di paesi minacciati di finire sotto le bombe e l’uranio impoverito, merita la massima attenzione e preminenza. La sua tutela in fondo (e la relativa rinuncia ad un immediato universalismo) è essa stessa una professione indiretta di universalismo di lungo periodo basato su criteri politici veritativi forti.
Tornando, comunque, ai termini generali, l’unica soluzione all’apparente insolubile antinomia tra sovranità comunitaria e universalismo è il richiamo ad una conoscenza universale di tipo sostanziale che sappia demolire i formalismi e le procedure come false verità che mettono falsamente in comunicazione l’individuo con l’universale saltando arbitrariamente il passaggio tramite le collettività e le società


Conclusioni

La cultura di legittimazione del capitalismo è l’unione di relativismo e universalismo astratto, procedurale e imperialistico. Nessuna metafisica sostanziale può sostenere ideologicamente il capitalismo, poiché la sua unica legittimazione è la libertà in sé e il suo unico fine astratto è il progresso in sé. Entrambi i concetti sono l’immagine del nulla relazionale. Pertanto la vera metafisica del capitalismo è la metafisica del nulla, difesa e sostenuta dal relativismo filosofico e consolata e armata dall’universalismo formalistico.
Tutti i tentativi di conciliazione tra metafisiche sostanziali (come quelle religiose e-o umanistiche) e il capitalismo e il liberalismo finiscono per trovarsi di fronte ad un’insormontabile contraddizione e vengono svuotate della loro stessa espressività, finendo per diventare dei diversivi estetici tollerati del pensiero unico. D’altro canto tutti i tentativi di opporsi al capitalismo senza una metafisica sostanziale finiscono invece per lottare contro i mulini al vento (nella migliore delle ipotesi) o per concimare il terreno filosofico su cui si fonda il capitalismo stesso (nella peggiore delle ipotesi)
Soltanto una concezione universalistica forte e sostanziale può demolire l’impianto relativistico e universalistico astratto dominante; e i suoi pilastri non possono che essere i criteri di Bene e di Verità o se si preferisce di Verità e di Bene nella loro concatenazione logica.



Lorenzo Dorato 













































1 commento:

  1. http://www.monde-diplomatique.fr/2014/05/CHIBBER/50380
    l'ho letto velocemente (la versione in italiano è sul numero di maggio di le monde diplomatique) ma mi pare riprenda in parte i commenti di questo tuo post
    enrico

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