Ripropongo qui un articolo scritto circa un anno fa per la Rivista Koiné focalizzato sulla dicotomia relativismo-universalismo.
Rimango sempre più fermamente convinto che la questione filosofica fondamentale da cui muovere per dare un orizzonte di senso alla realtà che ci circonda, saperla interpretare e quindi adoperarsi per poterla modificare, ruoti attorno al problema della verità.
Nello scritto che segue esprimo quella che vuole essere l'impostazione generale del problema. Chiariti i presupposti è poi possibile procedere oltre e dare linfa, sulle scie di una tradizione filosofica di lungo periodo, ad una filosofia della verità in cui venga compiutamente definita l'ontologia umana (ovvero la natura specifica dell'essere umano).
Riconosciuta l'esistenza di una specifica ontologia umana è possibile avviare una critica radicale delle strutture sociali e interrelazionali della società contemporanea.
Relativismo e universalismo astratto: le due facce
speculari del nichilismo. Bene e Verità come concetti “rivoluzionari” alla base
di un universalismo sostanziale e di una critica radicale del capitalismo.
Introduzione
La cultura dominante dell’Occidente capitalistico si
manifesta come un’unità inscindibile e complementare di relativismo ed
universalismo astratto.
Per comprendere come questi due “caratteri” della cultura,
dell’ideologia e della simbologia occidentale presentino una forte
complementarietà, bisogna dapprima definirli correttamente. Se in apparenza si
pongono come contrastanti, in realtà, il relativismo e quel tipo di
universalismo che definisco “astratto” non sono altro che due facce di una
stessa medaglia: quella del nichilismo. Scetticismo antiveritativo e disincanto
di fronte alla realtà, da un lato; affermazione della libertà assoluta come
valore procedurale e contemporaneo “colonialismo” culturale delle categorie
liberali occidentali, dall’altro, si fondono nel comporre la natura di quello
che si potrebbe definire in prima approssimazione “occidentalismo”. Tale
termine naturalmente non indica affatto la cultura occidentale nella sua
straordinaria e feconda stratificazione dai Greci ad oggi, bensì l’insieme di
ideologie interne all’attuale paradigma culturale integrato nell’occidente
capitalistico.
Il relativismo e la verità
Per relativismo si può intendere una posizione filosofica di
negazione dell’esistenza o conoscibilità della verità, dove per verità non si
intende naturalmente l’accertamento esperienziale di dati oggettivi
verificabili di carattere fisico, ma si fa riferimento ad una verità sulla
condizione umana in senso generale. Si tratta, cioè, della possibilità di
affermare delle verità universali sull’Uomo che prescindano da meri dati di
carattere materiale autoevidenti, del tipo: “l’uomo se non mangia muore”;
oppure: “l’uomo senza gambe non più camminare”.
Oltre tali verità biologiche e
scientifiche vi è la verità filosofica. Essa è la base di ogni universalismo ed
è negata dal relativismo. Tale verità potrebbe consentire di affermare, pur con
tutta la prudenza del caso, asserzioni generali quali, ad esempio, tale
definizione di Uomo che qui propongo in termini esemplificativi: “L’uomo è un
essere sociale e comunitario che non realizza sé stesso fuori dalla comunità in
totale isolamento. Ciononostante presenta caratteri contraddittori per cui
istanze egoistiche e prevaricatrici si fondono con istanze solidaristiche e di
condivisione. Inoltre l’uomo è un essere universale che tende, contrariamente
agli altri esseri viventi, a pensare sé stesso in quanto appartenente ad una
specie, il genere umano, cui istintivamente si rapporta (tramite la mediazione
continua delle comunità e dei gruppi collettivi cui appartiene), e da cui non
può isolarsi per la propria realizzazione intima. Infine l’uomo, pur legato
biologicamente ad indiscutibili bisogni materiali (essi stessi Veri) è portato,
nella realizzazione della propria natura, ad elevare il proprio spirito oltre
tali bisogni e ad interrogarsi circa la sensatezza dell’esistenza e circa la
propria fine. Alla luce di tutto questo, l’uomo può ontologicamente
disumanizzarsi (l’esistenza di tale verbo è di per sé eloquente) mentre il cane
non può smettere di essere cane, e la pianta non smettere di essere pianta in
senso ontologico, in quanto esseri dotati di una pura determinazione biologica
”.
Si tratta, di una definizione di
Uomo molto ampia ed articolata che tuttavia può essere portatrice di un primo
criterio veritativo.
Ma la verità filosofica potrebbe andare anche oltre e, pur
con aggiuntiva e rinnovata prudenza e attenzione, potrebbe provare ad
affermare, ad esempio, che: “l’uomo realizza pienamente sé stesso e persegue la
felicità reale quando è dedito al bene”; ed ancora, conseguentemente: “il bene
è qualcosa di conoscibile ed universalizzabile”; ed infine, per chiudere
logicamente con la definizione di bene: “la caratteristica minima del bene
consiste nella comunione cosciente con il prossimo e con sé stessi in una
situazione di armonia ed equilibrio tra gli esseri umani, laddove l’equilibrio,
dal momento che l’uomo è per natura mosso da forze contraddittorie, può anche
implicare come esito il confronto sotto forma di scontro”. Si tratta di prime
definizioni minime piuttosto inclusive e generali, al momento prese solo come
esempio, che consentono tuttavia di affermare verità che pretendono
un’universalità e una generalità. Esse naturalmente possono essere contestate,
ma la loro contestazione, per chi le afferma, non ne implica una perdita di
forza universale.
Il relativismo nega di fatto la
possibilità di assumere un punto di vista veritativo sulla condizione umana e
si limita ad affermare la verità di ogni punto di vista preso per sé stesso e
quindi la sua ineluttabile relatività.
Da un punto di vista relativista, esistono soltanto opinioni
e l’unica verità accertabile è quella biologica. Se un uomo afferma di
perseguire il bene e la felicità trucidando bambini, ciò diventa vero in
termini relativi (per il solo fatto che quell’uomo ne é persuaso e lo afferma).
Il suo errore, in termini relativistici, è solo il suo crimine, quello, cioè,
di violare l’altrui volontà e libertà imponendo la propria con la violenza. Ma
la sua convinzione di essere appagato dall’azione infanticida, non può essere
messa in discussione (ad esempio in termini di deviazione alienata dalla
realizzazione umana e dal concetto di bene), poiché essa rimane relativa al suo
giudizio (a meno che non si dimostri che quell’uomo é biologicamente
“deformato”, ovvero “neurologicamente” pazzo). Rifiutando qualunque ontologia
stabile dell'essere umano, il relativista può prendere in considerazione, come
certezza empirica, soltanto la variazione dei dati biologici. Il resto è
relativo.
Si tratta di un esempio estremo,
espresso volutamente in questi termini. Tuttavia si possono fare decine di
esempi assai meno estremi altrettanto pregnanti. In termini relativistici non è
possibile affermare come vero per l’Uomo alcunché. Ciò perché semplicemente si
nega una verità in merito alla natura umana, intesa come verità sulla
realizzazione dell’uomo. Se la natura umana è indefinibile e l’uomo è una
tabula rasa che determina sé stessa senza riferimenti universali e
universalizzabili, è evidente che i pensieri, le azioni, i valori, la morale,
la cultura possono essere giudicati soltanto entro le categorie, relative,
interne ad una collettività ristretta o persino (in ultimo) interne ad un solo
individuo.
Non è possibile dire, in ottica
relativistica, per fare qualche esempio con immediata ricaduta politica, che,
per l’uomo in generale, la partecipazione attiva alla vita politica e
decisionale di una comunità (che non c’entra nulla con la differenza tra
democrazia e dittatura basata sulle categorie proceduralistiche occidentali) è
migliore dell’isolamento e dell’esclusione politica; oppure che il diritto alla
casa e al lavoro garantiti è migliore della sua negazione sostanziale; oppure
che la logica mercantile e capitalistica estesa all’intera riproduzione sociale
è sempre e comunque devastante e indesiderabile per la stessa natura dell’uomo
(in primis per i dominati e gli oppressi e indirettamente anche per i
dominanti). Tutte queste asserzioni in ottica relativistica non possono essere
verità, ma punti di vista ed opinioni.
Il relativismo conduce per forza
di cose allo scetticismo ed al disincanto di fronte alla conoscenza della
realtà come totalità espressiva e riduce l’umanità ad insieme di opinioni
individuali relativamente valide.
E’ l’antitesi dell’universalismo e dell’idea di genere umano come totalità conoscibile, descrivibile e dotata di senso e di verità oltre le ovvie ed indiscutibili determinazioni biologiche.
E’ l’antitesi dell’universalismo e dell’idea di genere umano come totalità conoscibile, descrivibile e dotata di senso e di verità oltre le ovvie ed indiscutibili determinazioni biologiche.
La funzione positiva della “relativizzazione”, come
pratica provvisoria diversa dal “relativismo”
Se il relativismo compiuto che assurge a posizione ideale di
lettura del mondo è l’anticamera del nichilismo e del disincanto sul mondo ed
in tal senso è integralmente negativo ed inadatto all’universalità intrinseca
dell’Uomo, è importante, invece, riconoscere
una funzione positiva a quella che definisco “pratica della
relativizzazione”.
Con questo concetto intendo la capacità critica di saper “relativizzare provvisoriamente” gli elementi della realtà per leggerli entro il contesto in cui tali elementi si sviluppano e prendono forma. Si tratta di una pratica necessaria per evitare l’assolutismo delle categorie, ovvero l’arbitrio di attribuire proprie categorie già compiute e tipiche di un contesto, in forma approssimativa e spicciola, ad ogni altra realtà e contesto esterno. La relativizzazione naturalmente è una pratica della conoscenza che non può che essere provvisoria e rinnovarsi ad ogni stimolo critico. E’ provvisoria poiché se diventa permanente sfocia inevitabilmente nella sua cristallizzazione definitiva che in fondo non è altro che il relativismo stesso.
Con questo concetto intendo la capacità critica di saper “relativizzare provvisoriamente” gli elementi della realtà per leggerli entro il contesto in cui tali elementi si sviluppano e prendono forma. Si tratta di una pratica necessaria per evitare l’assolutismo delle categorie, ovvero l’arbitrio di attribuire proprie categorie già compiute e tipiche di un contesto, in forma approssimativa e spicciola, ad ogni altra realtà e contesto esterno. La relativizzazione naturalmente è una pratica della conoscenza che non può che essere provvisoria e rinnovarsi ad ogni stimolo critico. E’ provvisoria poiché se diventa permanente sfocia inevitabilmente nella sua cristallizzazione definitiva che in fondo non è altro che il relativismo stesso.
D’altro canto il relativismo
nasce proprio dall’esasperazione e dalla cristallizzazione della
relativizzazione. A forza di relativizzare, in sostanza, se non si giunge mai
ad un punto fermo, si cade inevitabilmente nella posizione anti-veritativa di
tipo relativistico, si sospende cioè il giudizio su qualsiasi cosa. Si tratta, a
ben vedere, di un paradosso solo apparente: la relativizzazione, infatti, ha di
per sé una funzione positiva irrinunciabile perché consente di giungere ad una
verità che non sia puramente formale ed apparente e che scavi nella sostanza
ultima della realtà. Serve, come vedremo, proprio ad evitare di cadere in
quello che definisco “universalismo astratto o procedurale”. Serve, quindi, a
rafforzare l’universalismo stesso (criticandone la versione astratta e
debolista) e consentendo il raggiungimento di un punto di vista universale
sostanziale.
E tuttavia, la relativizzazione, che è in sé una sana
pratica finalizzata all’universalismo sostanziale, se cristallizzata si
trasforma in relativismo, ovvero nel complemento logico dell’universalismo
astratto.
Universalismo astratto e procedurale. L’altra faccia del
relativismo.
L’universalismo astratto è una forma di universalismo debole
nella sostanza, ma forte e pervasivo nella forma, che ha una duplice radice: da
una parte è il frutto di una pratica universalistica che non relativizza mai sé
stessa (in tal senso è forte nella forma e arrogante negli esiti); dall’altra è
una comoda, ipocrita e debole reazione consolatoria (in tal senso è debole
nella sostanza) al relativismo. Il relativismo puro è infatti insopportabile
per l’uomo e tende generalmente a trovare una falsa copertura universalistica.
L’universalismo astratto può
essere descritto come il tentativo di universalizzazione di “valori” e criteri
di tipo prettamente formale, procedurale, o semplicemente assolutizzati in sé,
del tutto estranei alla sostanza delle cose. Tipici esempi sono i cardini
dell’universalismo liberale (punto di arrivo massimo dell’universalismo
astratto): la democrazia come procedura assolutizzata e i diritti umani come
ideale formalizzazione di un principio astratto calato dall’alto fuori dalla
contestualizzazione. Altro esempio di universalismo astratto è il principio
della non violenza (non la sua pratica che è di per sé un nobile e a volte
utile strumento di lotta e metodo di azione).
Più in generale l’universalismo
astratto afferma delle verità in generale, autonome, la cui sostanza prescinde
totalmente dalla contestualizzazione e dalla storicizzazione minima,
configurando quindi una vera e propria morale autonoma (che è speculare
all'assenza di morale). Ad esempio se io affermo che la frase “uccidere è
sbagliato” è sempre e comunque vera, sto affermando che è sbagliato uccidere in
tutti i casi, anche come legittima difesa o come forma di resistenza contro
un’aggressione. Sto, cioè, decontestualizzando un principio morale generico che
assurge a verità. Mentre il relativista assoluto afferma che non vi è alcuna
possibilità di stabilire una verità sul fatto che “uccidere è sbagliato” anche
a seguito di una contestualizzazione accurata dell’omicidio, l’universalista
astratto afferma a priori che uccidere è sbagliato indipendentemente dalla
contestualizzazione. In entrambi i casi si svuota la realtà di senso e quindi
si cade nel nichilismo. Il relativista nega la verità, l’universalista astratto
l’afferma al di là della realtà.
La Verità invece, per quanto non
sempre di immediata comprensione, esiste ed esiste all’interno della realtà, ed
è universale, ovvero è valida per tutti in generale (anche per chi non la
accoglie soggettivamente) e non è frutto di opinioni relative tutte egualmente
valide e tutte dotate di senso relativo. Per verità, ovviamente, non intendo
(ribadirlo è sempre utile) il solo accertamento dei fatti e degli eventi per
come si sono oggettivamente svolti (oltre le interpretazioni parziali e
filtrate dalle soggettività). La Verità, in senso filosofico, esiste anche in
termini di giudizio di “Buono” e “Cattivo”, “Giusto”e “Sbagliato”, “Umano” e
“Disumano”. Naturalmente, e qui si apre un problema gigantesco, essa è
difficile da definire, da conoscere e soprattutto da rendere conoscibile, nota
e universalmente accettata. Ma queste enormi e apparentemente spaventose e insormontabili
difficoltà non possono impedire di affermare che la Verità (intesa non solo
come accertamento dei fatti) esiste, anche quando la sua conoscibilità e
accettazione appaiono impraticabili. In un’epoca in cui la manipolazione
mediatica integrale della realtà arriva a toccare anche i fatti stessi, che
perdono di consistenza e di verità e rimbalzano ai nostri occhi sotto forma di
opinioni e di sentito dire, l’affermazione appena fatta può apparire enorme. Ma
a ben vedere non lo è. E’ solo la diretta conseguenza della necessaria fiducia
nella possibilità e necessità di un universalismo sostanziale come derivato
intrinseco della stessa Natura umana.
Tornando, in ogni caso, alla
descrizione dell’universalismo astratto (nemico mortale, con il relativismo, dell’universalismo
sostanziale), si può ribadire, per chiarezza, che alla sua base vi è l’idea di
“affermazione di verità generale decontestualizzata”. L’esempio “uccidere è
sbagliato in sé” è un esempio estremo, poiché quasi chiunque in fondo finirebbe
per ammettere la liceità della violenza in condizioni di estrema necessità.
Tuttavia ciò che conta sono le conseguenze che ha di fatto l’universalismo
astratto in termini di lettura della realtà e di posizionamento etico e
politico rispetto ad essa. L’universalismo astratto induce all’assunzione di
verità formalistiche e procedurali, come le forme di governo (oltre la sostanza
dei rapporti politici ed economici) le forme del diritto (oltre la sostanza dei
rapporti di forza), le forme della morale individuale autonoma (oltre la
sostanza dell’etica collettiva) le forme dell’agire (oltre la sostanza
contestuale dell’azione)
Universalismo astratto, individualismo, comunitarismo
In particolare l’universalismo astratto non può che avere
una matrice individualistica, nella misura in cui, per giungere ad un’immediata
(nel senso letterale di “senza mediazione”) verità universale (per giunta
debole) deve saltare la verità come portato delle collettività e delle
comunità. L’individuo deve cioè essere immediatamente collegato all’universale
assumendo principi generali slegati dalla storia, dalla tradizione e dalle
comunità reali nelle loro infinite particolarità.
L’universalismo astratto si
configura così come furia del dileguare, di matrice illuministica, a carattere
anticomunitario e costruito sulla base di una morale autonoma assolutizzata.
D’altro canto al suo (apparente) opposto esiste una forma di relativismo
comunitaristico (che altro non è che un relativismo spostato dall’individuo
alla comunità o, in termini ancor più ampi, alla civiltà) altrettanto
pericoloso che vorrebbe rendere ingiudicabili di per sé quelli che sono i
valori, i costumi, le usanze e, in ultima istanza, le verità di ogni comunità
dotata di una propria personalità specifica.
Esiste in molti paesi europei,
in particolare in Francia, un costante dibattito tra universalismo astratto di
tipo illuministico e comunitarismo relativistico. Anche in questo caso siamo di
fronte a due facce della stessa medaglia in contrapposizione apparente tra di
loro. Gli anticomunitaristi militanti (corrente in cui potremmo inserire ad
esempio in Italia la rivista Micromega, sempre solerte nel denunciare il
pericolo comunitarista anti-illuminista) se la prendono contro la pretesa delle
comunità (ivi compresi gli Stati) di fondare su sé stessa e sui propri
valori la propria stessa esistenza,
schiacciando con questo il principio di autodeterminazione individuale (che per
costoro è la base astratta dell'universalismo illuministico cui si appellano).
D’altro canto i teorici del comunitarismo relativistico oppongono
all’universalismo astratto l’inconoscibilità di una verità universale del
genere umano predicando persino aberrazioni come la sovranità micro-comunitaria
entro gli Stati nazionali . Entrambe le posizioni cadono nel nichilismo da due
precipizi opposti, ovvero in una posizione di distaccamento della realtà umana
nel suo complesso (realtà umana che è insieme particolare ed universale).
Il comunitarismo, come sarà poi
ribadito, laddove inteso diversamente, é invece totalmente compatibile con una
prospettiva universalistica sostanziale. Di più, l’universalismo sostanziale è
possibile soltanto in termini comunitari, laddove l’universalismo
individualistico si manifesta sempre e soltanto come universalismo astratto e
furia del dileguare abolizionistica. Lungi dall'essere due termini in
opposizione comunitarismo (universale) e universalismo (sostanziale) sono in
realtà due termini in reciproco rapporto di dipendenza.
Relativismo e universalismo astratto come doppia base dell’ideologia
e della “cultura” capitalistica. Nichilismo della merce e compensazione
universale pseudo-umanistica fondata sui pilastri concettuali della libertà e
del progresso.
Il capitalismo è accumulazione illimitata di merci senza
fine temporale e senza fine (scopo) sociale. Il rapporto di produzione
capitalistico è l’unione di libero sfruttamento e di libera concorrenza al puro
fine della massimizzazione del profitto e del potere. Il mercato, luogo di
queste libertà, è per definizione il luogo del “relativo”. Ogni cosa, nel
mercato, ha valore, solo in relazione al suo valore di scambio, che non è
intrinseco, e in relazione al fine (non sociale) di consumo e produzione come
atti individualizzati e scissi da qualsiasi criterio collettivo e comunitario di
valutazione, pianificazione e controllo.
Inoltre il capitalismo, pur
generalmente entro una cornice legale che si autorappresenta come non
arbitraria e contrattuale, deve far uso della violenza come forza sistematica
di imposizione della propria logica.
Per queste ragioni il
capitalismo non tollera la verità e non sopporta l’universalità. La verità e
l’universalità impongono riflessioni sulla bontà delle cose e non ammettono ciò
che si autolegittima in sé come meccanismo e automatismo neutro le cui dinamiche
non possono essere valutate e giudicate. La verità giudica e pretende; la
logica capitalistica sfugge al giudizio e si presenta come meccanismo puro
asettico ed efficientistico. Per questo motivo il capitalismo non può che avere
come fondamento ideologico il relativismo, ovvero la professione di
ingiudicabilità della realtà, alla cui base vi è, come visto, la proclamata
impossibilità di asserire verità generali non puramente biologiche e fattuali
sulla condizione umana.
La filosofia che ha sempre funzionato
da sponda ideologica del capitalismo, ovvero il liberalismo, contiene in sé e
nella sua contraddizione il segreto dell’unità inscindibile tra relativismo
(come sfondo ineliminabile su cui scorrono la merce, lo scambio, il consumo, la
concorrenza e lo sfruttamento) e universalismo astratto (come compensazione
necessaria e coscienza infelice della borghesia in quanto classe
pseudo-universalista). Le dinamiche capitalistiche che nel loro svolgimento
sono puramente nichilistiche (ovvero non rispondono a nulla che sia
riconoscibile come criterio valoriale), necessitano pur tuttavia di un falso
universalismo consolatorio, poiché l’uomo è, è stato e sempre resterà un essere
veritativo ed universale (che non può vedere sé stesso come atomo relativo
isolato dal genere umano). E questo universalismo compensativo che compensa
l’intollerabilità del nichilismo puro va ricercato in due concetti: la libertà
e il progresso.
A ben vedere si tratta degli
unici due concetti fondamentali che nell’ideologia liberale vengono
universalizzati, dal momento che tutto il resto rimane relativo, soggettivo,
arbitrario e ingiudicabile. Qual è l’elemento che caratterizza i valori di
libertà e progresso?
L’essere entrambi legati all’idea di massima
autodeterminazione individuale e l’essere entrambi pre-relazionali. Mentre ad
esempio il criterio di giustizia e di bene, o il criterio di solidarismo
prevedono a priori forme di contatto comunitarie (poiché sono concetti
relazionali), la libertà, come valore in sé, è un concetto individuale cui ogni
altro valore è sottomesso; allo stesso modo il progresso è un valore di per sé
scevro da condizionamenti comunitari impositivi. Vediamone meglio i dettagli.
Per ciò che riguarda la libertà, in ottica liberale,
l’individuo deve godere della massima libertà assoluta per poter egli stesso
scegliere liberamente di aderire al bene o al male, al solidarismo o
all’indifferenza, alla comunione o all’egoismo. E’ la libertà assoluta ad
essere universale, non i valori relazionali, che sono invece il frutto di
libere scelte soggettive. Ciò implica l’azzeramento d’ogni altro valore
generalizzabile che è rimesso alla stessa libertà dei singoli e non può essere
di per sé universalizzabile.
Naturalmente il liberalismo
riconosce limiti alla libertà individuale, ma soltanto nella misura in cui essa
violi l’altrui libertà (concetto di libertà negativa). Si tratta di una formula
che esclude ogni limitazione della libertà che sia per il conseguimento del
bene comunitario che sia a fini educativi, o che sia per la stessa limitatezza
conoscitiva del singolo inteso come estraniato dal suo contesto.
Che il liberalismo reale si sia
sempre coniugato con forme di moderazione e limitazione del proprio stesso
principio assoluto di libertà e che quest’ultima sia stata, in contesti
liberali, violata anche per fini collettivi e comunitari, non può essere
negato. Tuttavia si tratta sempre di correttivi al principio generale, digeriti
come dosi di realismo a fronte della complessità della realtà. Ciò che conta è
però il principio, non i suoi correttivi contingenti. Ed il principio della
libertà assoluta è il principio primo dell’universalismo liberale, ovvero della
forma più completa e pervasiva di universalismo astratto.
L’aspetto paradossale, che rende
il principio di libertà assoluta universalizzato particolarmente pericoloso, è
che esso si autorappresenta come neutrale. Mentre principi come la giustizia,
il solidarismo, il bene comune e collettivo e qualsiasi altro principio forte
relazionale vengono giudicati (ed in effetti lo sono) come principi impositivi,
il principio di libertà è giudicato come neutro, poiché in apparenza non
obbliga, non impedisce, non costringe, non limita, non frena. Si tratta del
paradosso del liberalismo, un paradosso di una potenza ideologica sconfinata
che rende tale ideologia particolarmente aggressiva nei fatti e apparentemente
docile nell’immagine.
La libertà assoluta, in realtà,
è essa stessa un principio impositivo tanto quanto lo è la giustizia, il bene e
ogni altro principio. Ponendosi, infatti, come principio primo inviolabile,
subordina a sé stessa ogni altro principio limitando di fatto la stessa scelta
dell’essere umano in quanto essere sociale.
D’altro canto è chiaro che se
l’essere umano viene visto come atomo slegato dalla società, il principio di
libertà assoluta appare come un principio non solo ovvio, ma anche l’unico
principio primo possibile. Ma il problema è proprio nelle premesse. Dal momento
che l’uomo non è un atomo pre-relazionale, ma è un essere sociale e comunitario
il principio di libertà assoluta si configura come un principio impositivo e
coercitivo (anche se apparentemente libertario), in quanto impedente
l’universalizzazione di altri principi primi.
Una coercizione che assume le vesti apparenti della massima
libertà di scelta e di autodeterminazione individuale e che pertanto vorrebbe
sfuggire al suo stesso carattere impositivo.
Emerge qui la peculiarità del
principio di libertà assoluta che si manifesta chiaramente come principio
relativistico (e in quanto tale debole) poiché, esattamente come il
relativismo, si fonda su un micidiale paradosso: nega di essere impositivo, ma
in realtà ha un suo principio impositivo. Nel relativismo, inteso in senso
generale, il principio impositivo è la negazione dell’esistenza della Verità (e
la professione di validità relativa di ogni verità). Similmente nel liberalismo
il principio impositivo è la massimizzazione della libertà e la conseguente
professione di indifferenza, in termini universali, verso gli altri valori
subordinati a libere scelte relative. Il liberalismo manifesta chiaramente la
stessa radice del relativismo.
In questo senso il liberalismo è
una realizzazione del relativismo e il suo universalismo astratto fondato sulla
libertà assoluta è l’altra faccia speculare del relativismo stesso. E’ in fondo
il relativismo che si universalizza facendo proprio un principio universale che
appare come inclusivo d’ogni altro principio. Un universalismo che allo stesso
tempo funziona come consolazione del vuoto lasciato dal relativismo preso nella
sua purezza insostenibile ed insopportabile.
E’ la consolazione della borghesia settecentesca che si
professa classe portatrice di valori universali e di liberazione; ed è la
consolazione, ben più grottesca, dell’uomo contemporaneo occidentale che
universalizza nel mondo i valori estraniati di diritto e di democrazia.
Al valore di libertà assoluta
come fondamento del liberalismo si aggiunge il valore di progresso che completa
la giustificazione morale del capitalismo e completa la costituzione dell’universalismo
astratto di matrice liberale. Dal momento che lo svolgimento delle dinamiche
capitalistiche pure (concorrenza, sfruttamento, assenza di fini sociali
premeditati, dominio dell’economia sulla politica) non Ë giudicabile, si impone
la necessità di dare un senso generale alla dinamica del rapporto sociale
capitalistico. Anche in questo caso, va ribadito che l’uomo Ë per definizione
portato ad attribuire un senso generale alle sue azioni e alla sua esistenza,
singola e sociale. Non può, cioè, fare a meno di una metafisica.
Demolita ogni metafisica forte
(religiosa, politica, umanistica che sia) che possa intralciare e limitare il
libero funzionamento della logica del capitale e del mercato, rimane soltanto
la metafisica del progresso. Se la libertà assoluta funge da giustificazione a
priori dell’accumulazione di denaro, della competizione e dello sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, il progresso funge da dotazione di senso ultimo a
posteriori. Le dinamiche violente e nichilistiche del capitalismo (di per sé
prive di qualunque fine sociale, che non sia il fine di arricchirsi) possono
così acquisire sensatezza generale nell’orizzonte del progresso materiale
dell’umanità, nell’avanzamento della tecnica, nel superamento dei limiti
terreni dell’uomo che la natura gli impone.
L’universalismo liberale e
capitalistico si tinge così anche di progressismo ideologico, oltre che di
libertà assoluta, ma il progressismo ideologico in quanto privo d’ogni valore
sostanziale è esso stesso un lasciapassare per il relativismo e per il
nichilismo (dal momento che non si interroga sui valori di fondo che precedono
e permettono la sua realizzazione, ma si assolutizza come valore in sé,
relativizzando ogni altra cosa).
Libertà e progresso diventano le
due colonne portanti dell’universalismo astratto per eccellenza e del
relativismo in quanto facce della stessa medaglia. Tra i due termini (libertà e
progresso) vi sono in mezzo le relazioni di produzione capitalistiche
giustificate dalla libertà e riempite di senso dal progresso secondo tale
semplice logica schematica: Libertà – Rapporti capitalistici – Progresso.
Sono dunque il principio
apparentemente neutrale della libertà assoluta e il principio apparentemente
neutrale del progresso, entrambi posti come a-valutativi, ed entrambi scissi
dalle dinamiche reali della società e dai rapporti dell’uomo con l’uomo, che
mostrano in maniera evidente la complementarietà e la specularità
dell’universalismo astratto e del relativismo, il loro essere cioè le due facce
di un’unica medaglia: quella del nichilismo.
Nella libertà in sé e nel progresso in sé, vi è infatti il
nulla, dal momento che tali pseudo-valori prescindono totalmente dalle
dinamiche umane relazionali nel loro svolgersi ed evolversi. La libertà è uno
pseudo-valore aprioristico che precede la relazione. Il progresso è uno
pseudo-valore a posteriori che dà senso astratto ad una relazione priva di
senso.
L’universalismo astratto e procedurale e la teologia
interventistica occidentale della democrazia e
dei diritti umani
Il relativismo è spesso posto in contrasto con
l’universalismo astratto, poiché in effetti, il relativismo puro negherebbe
formalmente anche l’universalizzazione dei concetti di libertà e progresso (e i
loro corollari: democrazia procedurale, diritti umani etc etc). Di tale
apparente contrasto vale la pena segnalare due aspetti. Il primo concerne la
sostanza reale di questo contrasto, il secondo l’uso strumentale ideologico.
Dal punto di vista sostanziale
si può dire che l’universalismo astratto in generale (e in particolare nella
sua realizzazione liberale) parte senza dubbio da una corretta polemica
anti-relativistica nel tentativo di opporre all’esplicito nichilismo del
relativismo, un metro di misura della realtà tramite categorie
universalizzabili. Tuttavia le categorie universalizzate finiscono per essere,
come visto, del tutto astratte, sganciate dal contesto reale e dalla verità
comunitaria e collettiva, dunque individualistiche e prive di sostanza.
Pertanto se la reazione al relativismo ed ai suoi esiti nichilistici Ë
corretta, tuttavia gli esiti dell’universalismo astratto finiscono per essere
essi stessi nichilisitici.
Vi è poi un secondo aspetto,
assai gravido di conseguenze, che concerne l’uso imperialistico e
colonialistico dell’universalismo astratto. Si tratta di un vero e proprio
abominio, di un’impostura concettuale
asfissiante che fa ed ha fatto da base ideologica, in particolare negli ultimi
venti anni, alla strategia imperialistica occidentale di conquista, distruzione
e sottomissione di ogni area del mondo ostile ai propri piani egemonici.
Si tratta di quella che Costanzo Preve ha correttamente
definito “teologia interventistica dei diritti umani” e che sempre
correttamente ha chiamato “l’equivalente contemporaneo della teoria della razza
di Hitler”.
Gli agenti culturali della
supremazia occidentale (in buona o cattiva fede poco importa) alzano la
bandiera dell’universalismo astratto dei diritti umani e della democrazia
prendendosela con la “non-ingerenza” accusata implicitamente di insensibile
relativismo culturale e indifferentismo per le sorti dei più deboli e i destini
dei popoli. La guerra ideologica contro l’Islam (con centinaia di libri scritti
per dimostrare l’incompatibilità strutturale tra Islam e democrazia, Islam e
diritti umani e civili etc etc) è un esempio decisivo di tale crociata
occidentalista. Chi non si schiera urlando e strepitando contro il Burka e
contro la lapidazione delle adultere è tacciato di relativismo culturale, di
incapacità di difendere i sacri (o profani) valori dell’occidente cristiano
(per la destra) e illuminista (per la sinistra).
Naturalmente, in un’ottica
universalistica sostanziale vi sono ottimi argomenti per respingere come odiosa
la pratica della lapidazione delle adultere (sul Burka la cosa è più complessa
anche se si può ben dire che si tratta di una sgradevolissima coercizione ). Il
punto quindi non è certo giustificare o accettare come relativamente valide (in
ottica relativistica, appunto) pratiche evidentemente odiose. Il punto è
semplicemente comprendere il carattere totalmente parziale e strumentale della
crociata ideologica e tirarsene fuori. La crociata, non a caso ha sempre
obiettivi specifici (Islam, Cina, “dittature” sud-americane, diritti umani in
Sudan, dittature militari in Medio-Oriente e in Asia centrale etc etc) e raramente affronta il problema
dell’universalismo dei valori e dei principi mettendo sull’arena della Verità
tutte le immondezze culturali e sociali prodotte dalle diverse società, a
partire ovviamente dalle società occidentali capitalistiche ciniche spietate
dissolute e prostituite.
Il vero obiettivo della crociata
non è il Burka o la lapidazione delle adultere, né l'integralismo islamico in
sé (come noto svariati gruppi islamisti anche estremisti integrabili sono stati
finanziati lautamente dai servizi segreti occidentali per obiettivi
geopolitici). Il vero obiettivo della crociata anti-islamica sono i limiti al
capitalismo finanziario posti dalla Sharia, le incompatibilità tra un certo
Islam politico e il capitalismo assolutizzato, gli obblighi caritatevoli
strutturali delle economie islamiche e, naturalmente, la conquista geopolitica
del cuore dell’Asia e del Medio-Oriente (altro che il Burka o l'incompatibilità
tra Islam e diritti umani).
In questo senso, quindi, il dibattito
tra universalisti con il fucile e gli aerei carichi di bombe contro antropologi
relativisti non offre davvero alcuno spunto sostanziale, se non l’interessante
studio sociologico e politico della “teologia interventistica dei diritti umani
e della democrazia”. Tale immonda cultura è così pervasiva da aver penetrato
tutti gli ambienti ideologici, da destra e sinistra, assumendo secondo i casi
diverse sfumature. Ma la sostanza ultima è sempre la medesima: tutti i popoli
del mondo dovrebbero anelare a società basate sulla democrazia procedurale di
tipo occidentale e sui diritti umani e se non anelano a questo è perché
sbagliano e non sanno cosa devono volere, e pertanto siamo legittimati ad
imporglielo, con le buone (propaganda, radio, pubblicità, pornografia) o con le
cattive (bombe, uranio impoverito, invasioni terrestri, stermini di massa,
occupazioni militari permanenti).
Ma vediamo meglio i due cardini
di tale ideologia interventistica. La democrazia, svuotata completamente di
sostanza, è intesa come democrazia liberale di società capitalistiche,
possibilmente a sistema maggioritario e possibilmente con il diritto di
spendere miliardi in campagne di propaganda finanziata da banche, assicurazioni
e grande imprenditoria da parte degli unici due candidati ammessi di fatto. Si
tratta naturalmente di un’impostura concettuale di inaudita gravità. Democrazia
letteralmente significa potere del popolo, o, ancora meglio, popolo al potere
ed intende, in termini sostanziali, la partecipazione più o meno diretta (e più
o meno delegante) del popolo alla gestione del potere e del governo, alla
gestione quindi di tutti i momenti della socialità materiale e ideale che si
esprimono collettivamente. Non è questa la sede per un’accurata disamina del
significato profondo di democrazia e di tutte le sue potenziali innumerevoli
sfumature.
E’ tuttavia certo che la
democrazia agitata dai teologi dell’interventismo occidentale è solo ed
esclusivamente una procedura formale ed una struttura istituzionale ben precisa
cui viene contrapposto sempre l’incubo della dittatura indipendentemente dai
rapporti sociali sostanziali che una determinata società esprime. Il
pluripartitismo ad esempio, o l’esistenza di elezioni ogni cinque anni non sono
di certo garanzia di democrazia in senso sostanziale. D’altro canto il
monopartitismo non è di certo sinonimo di dittatura e di assenza totale di
democrazia.
In un paese come Cuba si vota
ogni 2 anni per le assemblee municipali e ogni 5 anni per quelle provinciali e
nazionali ed esiste, a livello municipale il diritto di destituzione
dell’eletto da parte degli elettori (cosa da noi inesistente). Nelle elezioni è
vietata la propaganda pubblicitaria e i candidati si possono confrontare in
arene pubbliche dove possono esprimere le loro idee, i loro meriti senza
denigrare l’avversario. L’affluenza alle urne
mediamente supera il 98% degli aventi diritto. Vi è però un partito
unico (che coordina l’attività politica ed è di per sé estraneo all’assemblea
legislativa) e i candidati non si scelgono sulla base del pluripartitismo, ma
all’interno della legittimità costituzionale su base personale. Tutto questo
per sovrana decisione del popolo cubano che ha ratificato tramite referendum la
costituzione del 1976 che tra le altre cose prevede anche il sistema monopartitico.
A Cuba inoltre esiste il diritto assoluto al lavoro, ad uno stipendio
dignitoso, alla sanità e all’istruzione gratuite. Esistono altresì particolari
doveri di fedeltà alla nazione e allo Stato: ad esempio in termini di
prestazioni sanitarie in loco da parte di medici formati dal sistema
universitario nazionale (con i soldi di tutti) e che non possono (giustamente)
andare a guadagnare miliardi in qualche clinica statunitense.
Tutti questi elementi, senza per
questo affermare che Cuba sia l’esempio cristallino di democrazia perfetta (di
problemi in questo senso ne ha sicuramente molti), sono nella sostanza elementi
forti di partecipazione del popolo al potere e alla comunità nazionale, in un
reciproco rapporto di diritti e doveri e in un tentativo di neutralizzare il
potere (ben più debole tra l’altro rispetto ad un paese capitalista) del denaro
(divieto di propaganda). Al contrario invece, nei termini della teologia
democratica interventista, si tratta di elementi che limitano e ostacolano la libertà
e quindi la democrazia (in particolare il monopartitismo e i vincoli di fedeltà
allo Stato, ripetutamente presi ad esempio del carattere dispotico e
dittatoriale dell’isola caraibica).
Al contrario gli USA e i paesi
dell’Unione Europa sono, nell’ottica della teologia democratica, paesi
democratici a priori. Anche se i governi hanno ad esempio sottoposto (nel caso
dei paesi europei) le loro stesse costituzioni a pesanti modifiche sostanziali
a causa dell’adesione a trattati UE non soggetti a consultazione popolare
(oppure, se sottoposti a referendum, senza alcuna considerazione del
risultato); anche se nelle elezioni è permessa la propaganda e il libero
finanziamento da parte di privati miliardari; anche se esercita di fatto il
diritto di voto il 40-50% della popolazione (Stati Uniti); anche se esistono
sistemi maggioritari che impediscono ai partiti meno forti di avere voce in
capitolo; anche se un cittadino può avere una grave malattia e non essere
curato etc etc…
Siamo di fronte quindi ad un
tentativo di imporre un concetto puramente procedurale di democrazia, che, nel
suo aspetto strumentale, altro non è che la copertura dei termini più volgari e
diretti “capitalismo” e “mercato”.
Discorso analogo vale per i
cosiddetti diritti umani, estrapolati come categoria generica. Andiamo in
questo caso direttamente al loro aspetto manipolativo e strumentale. I diritti
umani diventano il metro di giudizio per incriminare qualunque capo di Stato
scomodo che attui politiche repressive o di limitazione di alcune libertà. Il
contesto in cui tali pratiche avvengono, naturalmente per i teologi
interventisti non ha nessuna importanza. Mentre scrivo assistiamo impotenti ai
criminali bombardamenti imperialisti sulla Libia effettuati con la scusa
ignobile della difesa dei diritti umani della popolazione civile. E’ormai
evidente a tutti che la controffensiva di Gheddafi (al di là del suo carattere
sproporzionato o meno che fosse) è tuttavia avvenuta in risposta ad azioni di
violenza e conquista militare da parte di gruppi armati decisi a rovesciare
l’ordine costituito con la forza (altro che manifestazioni pacifiche di
piazza!). Qualunque capo di Stato al mondo sarebbe intervenuto (e avrebbe fatto
il suo dovere) con l’esercito in difesa dell’integrità territoriale del proprio
paese e della sua sicurezza. Questo va affermato al di là delle ragioni o dei
torti delle due parti e al di là dei rapporti con l’imperialismo straniero (con
tanto di dotazione di armi e linee strategiche) che i ribelli hanno avuto.
L’intervento dell’esercito di Gheddafi è stato quindi un intervento ordinario e
consequenziale alla natura degli eventi. Inoltre (e qui siamo alla menzogna
mediatica diretta) non vi è stato nessun bombardamento di folle inermi o di
manifestanti pacifici, né fosse comuni (tutte notizie la cui falsità si è poi
rivelata esplicitamente). Eppure l’intervento armato degli imperialisti è stato
giustificato con la scusa dei diritti umani e della violazione dei diritti
della popolazione civile. Una logica che Ë stata sostenuta (in diverse versioni
e sfumature), oltre che dalla classe politica per intero (o quasi), da decine
di intellettuali di sinistra (da Flores d’Arcais a Rossana Rossanda) sacerdoti
“pacifisti” della teologia interventistica (in alcuni casi favorevoli alle
stesse bombe “umanitarie”, in altri favorevoli ad un “pacifico” cambio di
regime comunque eterodiretto e per giunta evidentemente favorevole agli
interessi occidentali).
Lo stesso copione si è
verificato d’altro canto in situazioni preparative di intervento armato o semplice
pressione diplomatica finalizzata ad ingerenze contro paesi sovrani. Alcuni
esempi: in Serbia nel 1999 (per il supposto genocidio, rivelatosi poi
inesistente, della minoranza albanese-kosovara); in Cina nel 2008 (per la
repressione della rivolta tibetana, che ha rivelato poi uno scenario
capovolto); in Birmania nel 2007 (la repressione dei monaci zafferano); in Iran
(i supposti brogli di Ahmadinejad nel 2009); in Sudan per diversi anni (per il
genocidio dei neri del Darfur). Alla base degli interventi armati in
Afghanistan e Iraq vi è stata, sotto le bufale di Al Qaeda e delle armi di
distruzioni di massa, anche la retorica dell’esportazione della democrazia. E
così via…
Più in generale si tratta della demonizzazione del tiranno
(qui democrazia e diritti umani fanno un unico gioco), dell’ipostatizzazione
dei concetti di dittatura e dispotismo che assurgono a categorie del Male
pseudo-universali speculari a quelle di democrazia e diritti umani che
assurgono a categorie del Bene pseudo-universali.
Il problema della teologia
interventistica, naturalmente, non si limita ai cosiddetti interventi umanitari
armati oppure alle pressioni diplomatiche provenienti dall’alto. Si generalizza
in termini di mentalità e di cultura anche all’interno di forze non immediatamente
al servizio degli interessi del capitale, a partire dalla sinistra,
letteralmente infestata dalla mentalità formalistica “missionaria” e
suprematista dei diritti umani. Il comunicato di Sinistra e Libertà contro la
guerra in Libia, uno dei tanti comunicati connotati dal medesimo tono, parla
chiaro: “Per noi il no alla guerra e l’inimicizia e l’avversione nei
confronti di Gheddafi hanno ugual rilievo. Dobbiamo uscire dal vicolo cieco tra
inerzia e guerra per generalizzare il tema dei diritti umani e della
democrazia”. E ancora:…”con l’obiettivo di mantenere l’integrità e
l’autonomia di quel Paese sotto un nuovo governo democratico”; e in
aggiunta:…. “l’Italia si faccia promotrice di una iniziativa politica per
determinare il cessate il fuoco e l’apertura del tavolo negoziale, oltre a
richiedere l’applicazione delle parti della risoluzione 1973 che
consentirebbero di promuovere un’ intervento positivo per il cambio del regime
e la protezione dei civili”. Siamo di fronte non soltanto all’equidistanza tra
aggressione imperialista e (supposta) repressione interna (in verità
configurabile come legittima risposta armata ad un attacco armato); ma anche (e
ciò per alcuni versi è ancor più grave) ad un’asserita e ribadita volontà
missionaria di esportazione della democrazia (nel senso occidentale) tramite il
rovesciamento golpista dall’esterno di quello che è un governo (nel bene e nel
male) legittimo e che ha goduto e gode dell’appoggio di larga parte della
popolazione libica. Un rovesciamento che, visto il richiamo alle Nazioni Unite
come missionari democratici, imporrebbe, alla luce dei rapporti di forza
internazionali, un governo fantoccio al servizio degli interessi occidentali.
Siamo di fronte, pertanto, ad una esplicita mentalità
coloniale in versione umanitaristica.
Nel paragrafo finale sarà
discusso brevemente il problema del cosiddetto interventismo e della violazione
della sovranità degli Stati in un’ottica universalistica sostanziale (libera
sia dalle astrattezze che dalla strumentalizzazione imperialistica). Si tratta
di un problema non banale che non può essere liquidato con prese di posizione
sbrigative.
Per il momento basti ribadire come l’universalismo astratto,
oltre ad avere esiti nichilistici sovrapponibili al relativismo, è oggi anche
la sponda preferita dell’occidentalismo culturale ed armato. Tanto più per
questa ragione è decisivo prenderne le distanze e confutarlo come falso.
Relativismo e universalismo astratto. Un’ unica cultura
alla base dell’individualismo e del nichilismo occidentale
A questo punto si può sinteticamente descrivere alla luce di
quanto detto finora, quale sia il carattere complessivo della cultura
relativistica e universalistica astratta dell’occidente, ovvero, in sostanza
quale sia il carattere del cosiddetto occidentalismo.
Si tratta dell’unificazione
completata del concetto di libertà liberale classico che dalle sfere
dell’economia e della politica si generalizza, nella società contemporanea
europea, anche ai costumi e alla morale, dopo la rottura degli argini morali
della borghesia (con il suo moralismo religioso e il suo patriarcalismo
autoritario) e degli argini resistenziali delle classi subalterne contadine ed
operaie (cultura rivendicativa forte, orgoglio di classe, senso del dovere,
appartenenza comunitaria tradizionale).
Una volta rotti questi argini
borghesi e proletari insieme, le società europee (la società nord-americana ha,
da questo punto di vista, tempi e peculiarità proprie), hanno generalmente
abbracciato in tutti gli ambiti dell’esistenza il concetto di libertà liberale.
A questo si unisce il mito del progresso depotenziato del suo carattere
sociale, così come era stato ereditato dall’illuminismo da parte delle tradizioni socialista e comunista. Il progresso,
non più sociale, torna ad essere progresso in sé, riassunto nel termine
generico quanto pericoloso di modernità che, nella realtà dei rapporti di
forza, finisce per essere un termine edulcorato per indicare il “progresso”
nella valorizzazione del capitale. Ogni misura contro il lavoro, di precarizzazione
e individualizzazione delle relazioni contrattuali, così come l'apertura dei
mercati, le liberalizzazioni e le privatizzazioni sono sempre descritti come
progresso e modernizzazione.
Quella parte dei termini
“progresso” e “modernizzazione” che faceva riferimento fino a trenta anni fa ad
un significato sociale di tipo emancipativo delle classi subalterne (che
tutt’oggi continua ad avere nelle “periferie” del mondo), si svuota di
contenuto sociale e mantiene il carattere puramente scientifico e
apparentemente tecnico che altro non è che l’appannaggio degli interessi
capitalistici.
Libertà e progresso, svuotati
d’ogni contenuto e ridotti a feticci astratti, procedurali e tecnici, possono
essere infine alzati come bandiera dell’occidente civilizzato e possono
diventare la base dell’universalismo astratto, ideologia che consola milioni di
cittadini occidentali ridotti allo stato plebeo di consumatori di merci. Il
relativismo assoluto e totalitario della merce e del denaro come unico
parametro e metro di giudizio e paragone, viene compensato dalla patina
universalistica-astratta della libertà e del progresso, con i loro miti
derivati della democrazia e dei diritti umani.
La brutalità di una
vita piegata ai voleri divinizzati dei cosiddetti “mercati finanziari” giudici
di ultima istanza di ogni scelta politica; la miseria di un’esistenza sociale
asservita alle logiche mercantili che profanano il sacro e divinizzano il
profano. Tutto ciò viene nascosto dal problema (elevato a scontro di civiltà)
dei dittatori, dell’integralismo islamico, della tirannia, dei totalitarismi
politici, dei partiti unici, dei tentativi tirannici (non sia mai) di
sganciarsi dal capitalismo internazionale e di recuperare la sovranità politica
(interpretati come casi patologici di società chiusa popperiana che rifiuta il
confronto con l’inevitabile destino della cosiddetta globalizzazione). La
miseria e il declino culturale e spirituale del mondo occidentale vengono così
coperti dagli umanitarismi “missionari”
per la democrazia e i diritti umani nel mondo.
Il relativismo totale
dell'Occidente, rappresentazione ideale della sostanza materiale capitalistica,
è coperto da un ipocrita universalismo astratto privo di sostanza e (per
giunta) armato fino ai denti.
E così il vero totalitarismo, quello più pervasivo
rappresentato dalla sovranità della merce sul mondo è coperto con il ben più
debole spauracchio dei totalitarismi politici.
Verso un universalismo sostanziale
L’uso imperialistico disgustoso dell’universalismo astratto
della democrazia e dei diritti umani, potrebbe indurre ad una sensazione di
rigetto del falso universalismo occidentalista così forte da far abbandonare il
bambino (l’universalismo) con l’acqua sporca (il suo carattere astratto e
procedurale e il suo uso colonialistico). Tuttavia è bene che alla prima
reazione di semplice disgusto segua immediatamente la volontà di pensare alle
basi di un universalismo sostanziale, partendo dal fatto che è proprio
l’assenza di universalismo la condizione privilegiata per l’insorgere
dell’universalismo astratto.
Un universalismo sostanziale non
solo è possibile, ma è necessario se non si vuole seguire la corrente che i
tempi sembrano imporre ed è altresì necessario se si vuole opporre al sistema
di relazioni sociali capitalistiche un sistema di relazioni sociali
strutturalmente solidaristiche.
Non vi è, d’altra parte,
anticapitalismo coerente senza un universalismo sostanziale e una critica
egualmente efficace tanto del relativismo quanto dell’universalismo astratto e
formalistico.
Se nella forma di merce è contenuto il relativismo, nella
demercificazione della vita sociale deve essere contenuto il suo opposto. Non
vi è critica efficace delle relazioni capitalistiche che non si basa su criteri
veritativi potenzialmente universalizzabili.
Ogni idea politica che si
propone il perseguimento di obiettivi sociali e comunitari forti, per forza di
cose dovrà ledere quel principio che tiene insieme in un’unica ideologia
distruttiva il relativismo e l'universalismo astratto, ovvero il principio
della libertà assoluta. Questo non deve essere taciuto, ma rivendicato. Un
principio preminente per forza di cose dovrà ledere un altro principio. Il
liberalismo finge che ciò non sia vero e rivendica il suo falso carattere
libertario e inclusivo, ma la sua logica sibillina e strumentale alla difesa di
relazioni di potere, va respinta e le cose vanno presentate per come sono. Se
riteniamo giusto il diritto alla casa, dovremmo ledere la libertà di libera
compravendita delle case. Se riteniamo giusti salari più alti, dovremmo ledere
orgogliosamente il diritto di pagare salari bassi. Se riteniamo cattiva e
umiliante la prostituzione femminile dovremmo ledere due libertà: quella dello
sfruttatore di sfruttare la prostituzione, ma anche quella della donna di
volersi prostituire per soldi ricevendo per questo un riconoscimento sociale
(quand’anche in una libera società senza sfruttamento); se riteniamo pernicioso
l’uso della droga e decidiamo di bandirla dovremmo ledere due libertà: quella
del venditore di venderla e quella del consumatore di consumarla; se riteniamo
buona la sanità pubblica e vogliamo generalizzarla dovremo ledere un’infinità
di principi tra cui ad esempio quello di libertà di lucrare sulla sanità
privata, quello di libertà del medico di andare a lavorare all’estero per
cliniche private per un certo numero di anni etc etc.
La libertà pertanto come
concetto in sé, se si parte da una concezione sociale dell'essere umano, non
può che essere subordinata a criteri più profondi e sostanziali e a finalità
più alte. Ciò non significa certo che la libertà personale si eclissi e cessi
di esistere. Significa al contrario che deve essere spogliata della sua
assolutezza per interagire con il contesto collettivo e quindi, in conseguenza,
realizzarsi in pieno come libertà sostanziale individuale e sociale.
Al criterio capitalistico e liberale della libertà da
qualcosa va sostituito il criterio della libertà comunitaria di libertà per
qualcosa.
Anche il concetto di progresso
materiale deve essere spogliato della sua assolutezza, rivendicando la
sovranità umana e collettiva sui suoi meccanismi apparentemente automatizzati e
neutrali (ma che neutrali non sono affatto). Il progresso deve rientrare in una
decisione di tipo politico e non scaturire da forze impersonali e la stessa
decisione politica deve contemperare l’esigenza imprescindibile del progresso
materiale e scientifico in termini di sviluppo con altre priorità esistenziali
e sociali egualmente politiche (problemi etici di qualsiasi tipo). La scienza,
oggi tendente ad assolutizzarsi, deve tornare ad essere sottomessa alle
decisioni etiche umane ponderate sulla base di principi diversi, a volte
conflittuali, egualmente degni di considerazione. Anche il progresso, quindi,
come la libertà, deve essere subordinato ad altri criteri di valutazione e
spogliato del suo carattere assoluto e apparentemente neutrale. Deve essere
demolito come ideologia e considerato semplicemente come validissimo strumento.
I movimenti comunisti e
socialisti del novecento hanno ereditato dalla tradizione illuministica sia il
concetto di libertà che il concetto di progresso sottoponendoli tuttavia ad
un’efficace e importante critica. In particolare la libertà è stata riabilitata
come libertà sostanziale in opposizione alla libertà formale di tipo borghese.
L’uomo, cioè, può essere davvero libero se liberato dalla catene dello
sfruttamento sostanziale. Allo stesso modo il progresso generico di tipo
borghese è stato da un lato assimilato
in senso filosofico come ideologia lineare, da un altro lato reinterpretato
come progresso sociale (sia materiale che morale). In particolare comunismo e
socialismo, così come tutte le istanze politiche socializzatrici contrapposte
materialmente al capitalismo e ideologicamente al liberalismo e ad ogni altra
giustificazione filosofica del capitalismo, hanno contrapposto alla libertà e
alla giustizia contrattualistica borghese, una libertà ed una giustizia
sostanziali possibili solo all’interno di relazioni produttive cooperative ed
egualitarie.
Ciò che però è quasi sempre
mancato nella tradizione comunista e socialista è l’ammissione esplicita della
necessità di agire in nome di un criterio di Bene e non solo di Giustizia
(intendendo quest’ultima come criterio di proporzionalità tra lavoro profuso e
salario pagato) e di Liberazione dalle catene della dipendenza e dello
sfruttamento
Vi è qui un passaggio fondamentale che sarà spiegato
accuratamente nei prossimi paragrafi.
Dall’universalismo incompleto della Giustizia di classe e
dell’uguaglianza sostanziale, all'esplicitazione del concetto di Bene
Per principio o concetto di Bene come criterio valutativo
della realtà umana mi riferisco ad un orientamento che considera possibile
interpretare come Buono o Cattivo, sulla base della distinzione tra Bene e Male,
tutto ciò che è proprio dell’Uomo e
appartiene all’Uomo. Una interpretazione che è possibile solo se si ammette
l’esistenza di una Verità sulla condizione umana in generale, sui bisogni
dell’Uomo e sulla sua realizzazione esistenziale, ovvero una Verità ontologica
sull’essenza generica dell’essere umano, cioè sulla Natura umana.
La comprensione del fatto che la
società è classista, che esistono proletari e borghesi, salariati e
capitalisti, dominati e dominanti, sfruttatori e sfruttati etc etc.. è chiaramente
decisiva sia per la lettura dei rapporti di forza sia per il superamento di
approcci moralistici e generalistici di carattere puramente buonista, avulsi
dalla realtà e di fatto o indirettamente schierati dalla parte del più forte, o
semplicemente incapaci di cogliere i caratteri sistemici delle strutture
sociali (in nome di un malinteso ed astratto criterio di Bene alienato dalla
realtà). L'analisi strutturale dei modi di produzione e la conseguente forte
rilevanza posta sugli aspetti sistemici e gli automatismi delle strutture
sociali, veri punti forti e
irrinunciabili dell'analisi marxiana, mettono al riparo dal rischio di cadute
moralistiche o prive di sistematicità e di capacità di sintesi completa della Totalità.
Tuttavia la divisione materiale in
classi e l'esistenza di forze ed automatismi sistemici e strutturali, non è una
buona scusa per fare finta che l’Uomo (Uomo come ente generico, non come
persona singola) non esista. L’Uomo esiste eccome ed esiste non solo come
maschera di carattere sociale, ma come Uomo in sé. Per questo il concetto di Bene per l’Uomo,
purché inteso e compreso contestualmente alla dinamica classista, diseguale e
strutturale della società, è un concetto universalistico dirompente, assai più
dirompente dell’universalismo della Giustizia di classe e dell’Uguaglianza
sostanziale (concetti, in verità, inclusi essi stessi entro il concetto di
Bene).
La preminenza logica del concetto di Bene presuppone per
forza di cose un superamento-conservazione dei concetti puri e semplici di
Liberazione sociale, di Uguaglianza sostanziale e di Giustizia presi di per sé
(concetti centrali, pragmatici ed ideali insieme, della tradizione socialista e
comunista).
L’universalismo della giustizia
di classe (universalismo della prassi) e dell’uguaglianza sostanziale
(universalismo ideale della prospettiva) è stato il punto forte
dell’universalismo dei movimenti comunisti e socialisti di stampo marxista.
Tale universalismo ha avuto senza dubbio una funzione decisiva e grandiosa
nello smascheramento dell’universalismo astratto di tipo borghese e liberale, poiché ha rivelato la sostanza
classista e violenta dei rapporti economici oltre la loro apparente forma
armonica e libera. Ha così universalizzato il concetto di giustizia e di
uguaglianza in senso sostanziale, rompendo l’ipocrisia della giustizia e
uguaglianza formalistica liberale e rompendo altresì le ipocrisie di ogni
umanismo destrutturalizzato.
Oltre questa straordinaria
operazione di pulizia e di chiarezza sociale compiuta dalla tradizione
socialista e comunista (in buona parte sulla base delle categorie marxiane),
resta, tuttavia, il problema della debolezza di un universalismo basato sia
sulla verità della giustizia di classe o, più in generale, sulla verità della
giustizia degli oppressi (che, sia chiaro, hanno il sacrosanto diritto di
ribellarsi contro i loro oppressori), sia sull’uguaglianza sostanziale degli
uomini.
Due osservazioni devono essere svolte in proposito. Prima di
tutto tale universalismo (che pure mantiene una sua forza ineliminabile)
conosce una sua specifica degenerazione che è
l’humus culturale di gran parte dell’attuale mondo di sinistra nelle sue
varie componenti; inoltre, cosa ben più importante, rimane un universalismo in
sé incompleto. Vediamo questi due aspetti separatamente.
La degenerazione che può subire
l’universalismo (nella sua componente “pragmatica”) basato sul concetto di
Giustizia sociale per gli oppressi e gli sfruttati, è quella di cadere in una
forma di mitologia moralistica a base sociologica che esalta la figura dello
sfruttato come motore assoluto della storia e portatore incondizionato della
verità e del trionfo delle ragioni dei deboli sui forti. Si tratta di una
impropria traduzione morale delle categorie sociali marxiane. Da ciò derivano i
numerosissimi miti moralistici del Soggetto rivoluzionario e-o ribelle, non più
visto in termini scientifici marxiani come elemento oggettivo intermodale (che
può oggettivamente rovesciare il modo di produzione capitalistico), ma inteso
moralmente nelle sue innumerevoli specificazioni (classe operaia, terzo mondo,
dannati e ultimi della terra, migranti etc etc) come portatori della ragione e
della giustizia. La versione degenerata del mito sociologico moralizzato è il
mito della ribellione in sè, della rivolta contro il potere in sè, che diventa
un concetto romantico che si generalizza e si astrae dalla stessa realtà. Buoni
e cattivi, giustizia e ingiustizia, ragione e torto diventano concetti
sociologicamente determinati.
Le conseguenze farsesche di
questa mitologia sono quelle dell’ultra-sinistra moderna che (andando persino
oltre lo stesso determinismo sociologico) abbraccia la ribellione a priori
senza scomodarsi di intenderne il ruolo oggettivo, le ragioni, i metodi, e, in
ultimo (in termini totalmente anti-marxisti) neanche la stessa composizione di
classe. E’ l’apologia della rivoluzione intesa in termini di movimento puro
senza fine, quasi come processo estetico, che va a colmare probabilmente il
tragico vuoto politico e di prospettive che si respira in
questi anni nella maggior parte dei paesi occidentali.
E’evidente che si tratta di una ricaduta totale nel peggiore
degli universalismi astratti del tutto speculare a quello liberale dei diritti
umani e della democrazia (tinteggiato però di toni romantici e ribellistici).
L’aspetto invece più importante
della questione, riguarda il fatto che l’universalismo della Giustizia degli
sfruttati e dell'Uguaglianza sostanziale, è di per sé un universalismo
incompleto, poiché ha una base puramente sociologica (la Giustizia) e si
articola su un terreno fondamentalmente economico (l'Uguaglianza). Ha pertanto
una valenza limitata ed uno spazio angusto. Con la scusa (peraltro di per sé
corretta) che la Verità ed il Bene possono essere strumenti classisti di falso
universalismo usati da "preti, intellettuali di regime ed agenti del capitale",
che occultano la sostanza della divisione in classi della società,
l’universalismo pragmatico della Giustizia degli oppressi finisce per
autolimitarsi, riducendo la stessa portata universale della trasformazione
sociale. L’universalismo (prospettico)
dell’Uguaglianza sostanziale, invece, ha da un lato una portata più universale (non avendo una
base sociologica pura), ma é però esso stesso limitato dal proprio terreno
preminentemente economico.
L’anticapitalismo e il comunismo
non possono reggersi esclusivamente né su un universalismo a base sociologica
(la Giustizia di classe), né su un universalismo a base esclusivamente
economica (l’uguaglianza sostanziale). L’universalismo, così inteso, per quanto
benemeritamente sostanziale, rimane incompleto e ridotto.
Per una metafisica sociale e personale del Bene come base
di un pensiero forte. Bene sostanziale come soluzione della falsa opposizione tra nichilismo e moralismo.
Il comunismo, se non ridotto a pura pratica di equa
distribuzione delle risorse materiali in base al lavoro prestato (cosa
senz’altro fondamentale, ma che è soltanto una parte del problema della
trasformazione sociale), non può che
agire in nome di un riferimento al Bene di tutti. Di fatto lo stesso comunismo
storico e politico ha sempre agito in nome del Bene. Anzi, paradossalmente,
spesso lo ha fatto persino troppo, senza cioè i dovuti riguardi per le libertà
e le autonomie personali e per una maggiore democratizzazione sostanziale.
E tuttavia, per ironia della
sorte, il comunismo ha sempre respinto una metafisica umanistica del Bene in
nome di una metafisica “materiale” della Giustizia di classe (ritenendo la
metafisica del Bene un residuo reazionario per ingenui religiosi, per idealisti
o per intellettuali al libro paga dei servizi segreti).
Il concetto di Bene come
concetto strutturale (e non puramente individuale, opinionistico e spontaneo) è
invece un concetto guida irrinunciabile. Allo stesso tempo il suo abuso è
gravido di conseguenze pericolose. E’ cioè, da una parte, una base
irrinunciabile per un pensiero universale e veritativo, ma allo stesso tempo se
ipostatizzato o frettolosamente ingigantito ed esteso diviene la base della
soppressione del libero pensiero e dell’autonomia personale assumendo le sembianze del moralismo formale, bigotto e coercitivo (nemico giurato della Verità).
D’altronde è proprio con la scusa del rischio della
soppressione dell’autonomia dell’individuo e del rischio di scadere nel moralismo, che il concetto di Bene è stato derubricato, dalla cultura dominante liberale (in tutte le sue varianti), a
codice dittatoriale degno degli Stati totalitari, o meglio ancora degli Stati
etici dittatoriali (dove il termine etico è usato spregiativamente, magari in
diretto riferimento alle tentazioni fasciste). Eppure non vi è Stato più etico
di uno Stato socialista e comunista che dirige una società alla luce di istanze
solidaristiche e di pianificazione.
Se il comunismo, come pensiero
politico, si appropriasse di una metafisica sociale del Bene ben ponderata e
moderata abbandonando la Metafisica (parziale e sociologica) della Giustizia
(non abbandonando la giustizia sostanziale, ma la metafisica “materialistica”
della giustizia) ne avrebbe tutto da guadagnare: in primis si spoglierebbe
della pesante eredità di quelli che altro non sono che elementi liberali e
positivistici che lo depotenziano nel suo significato veritativo ed universale
e lo possono ridurre a fenomeno puramente economico o ancor peggio a fenomeno
puramente rivendicativo costruito sulla cultura della rivalsa; inoltre agendo ed ammettendo esplicitamente di agire sulla base di un
criterio universale di Bene politico e sociale, il comunismo sarebbe
sicuramente più in grado di riflettere sui limiti stessi dell’uso del criterio
di Bene collettivo evitando o limitando fortemente le invadenze e le pratiche
coercitive a ciò connesse. Solo chi cerca di agire eticamente e moralmente, del resto, può imparare a conoscere ed evitare le degenerazioni che si risolvono in moralismo formale e bigotto. Chi nega invece un orizzonte morale ed etico alla vita oscillerà in perpetuo tra nichilismo e moralismo (i due estremi opposti complementari che si completano vicendevolmente per riempire i propri vuoti speculari).
Una metafisica del Bene ben
intesa, a ben vedere, non è nient’altro che una metafisica di orientamento che sappia
ponderare in maniera equilibrata le sue pretese universali fondamentali con il
rispetto delle particolarità dei gruppi e degli individui, che sappia quindi
ponderare l’universalità con la libertà, l’assoluto con il relativo, la persona
con la comunità e la comunità con l’universalità.
La metafisica del Bene permette di affermare che qualcosa è
buono per l’uomo indipendentemente dal suo desiderio contingente e individuale
temporaneo. Permette allo stesso tempo di fondare una società su criteri non
solo di giustizia, ma anche di buon esempio, virtù, senso del limite,
solidarismo strutturale, cura dell'immanenza e della trascendenza come pratiche
sociali e comunitarie e non soltanto puramente individuali (tutte cose che una
pura Metafisica della Giustizia di per sé ignora). Nel concreto solo una
Metafisica del Bene sociale e personale può permettere (senza cadere nel
moralismo) di bandire il consumo di droghe devastanti come pratica antisociale
e anti-personale o la prostituzione per soldi come pratica umiliante per la
dignità umana; oppure può permettere di considerare l'educazione, la
sessualità, la fine della vita (e tutte le enormi problematiche a ciò legate) e infine, le stesse necessità spirituali dell'uomo come
fatti sociali di rilevanza etica non solo personale, ma anche collettiva. Più in generale
solo una metafisica del Bene sociale e personale può dare una sostanza
etico-politica a tutto ciò che non risponde semplicemente al criterio
valutativo di Giustizia-Ingiustiza (formalistico liberale o sostanziale socialista che
sia).
Una metafisica del Bene permette
inoltre di strutturare il Bene all’interno di una tradizione materiale e ideale
che diviene sistemica facendo in modo che essa non sia relegata soltanto ad una
scelta e una scoperta esclusivamente personali. Tipico del liberalismo e spesso
anche di un certo cattolicesimo ultra-personalistico è relegare al piano
personale la virtù considerando il piano comune e collettivo come pura materia
neutrale priva di forza espressiva, provocando così una grave scissione tra
piano sociale e piano personale.
Allo stesso tempo, trattandosi
di una metafisica ben ponderata (non invasiva dunque), la Metafisica del Bene
permette di tenere distinti (ma non separati) il terreno personale e il terreno
comune, sapendo ad esempio stabilire un confine (esso stesso etico e cosciente)
tra scelta personale e scelta comune e sapendo altresì comprendere la
centralità della persona e del suo cammino esistenziale per l’acquisizione del
Bene stesso; sapendo, in definitiva, intendere “personale” e “comune” come
piani distinti, ma non separati e sfuggendo contemporaneamente sia il pericolo
dell’annullamento di una metafisica sociale (relativismo sociale in tutte le
sue forme) sia il pericolo opposto dell’invasività e dell’annullamento della
persona (ipostatizzazione assoluta della metafisica sociale del Bene ed
annullamento della sfera personale,
con possibile insorgenza del relativismo dei costumi e della morale come naturale risposta oppositiva).
E' evidente che, una volta posta
la necessità di una Metafisica del Bene, il rischio di una ricaduta nel
relativismo è un rischio che può insorgere da due direzioni, nel momento in cui
la Metafisica del Bene si riduce a Metafisica parziale solo personale o solo
sociale. In questi casi il relativismo si appropria della dimensione sociale o
della dimensione personale lasciando campo libero al moralismo, che altro non è se non la realizzazione parziale e scissa di una Metafisica privata della
totalità. Soltanto una Metafisica del Bene personale e sociale può fungere da
vero antidoto verso il rischio di una ricaduta nel relativismo e nel suo contraltare: il moralismo.
Metafisica del Bene e unificazione dei concetti di Bene e
Giustizia.
E’ chiaro che una metafisica del Bene, personale e sociale,
è a priori incompatibile con il capitalismo come modo di produzione che ha e
non può che avere come base logica e filosofica di legittimazione il nichilismo
(che è per definizione al di là del bene e del male). Ogni tentativo di
conciliare il capitalismo (tanto più il capitalismo privo di compromessi
politici forti e di mediazione sociale) con una metafisica del Bene finisce per
risultare non soltanto contraddittorio, ma anche enormemente pericoloso.
Sarebbe infatti destinato a scadere nel moralismo, nella scissione del piano
sociale da quello personale e nella legittimazione di fatto delle strutture
sociali nella loro ingiustizia, nel loro classismo e nel loro nichilismo
strutturale. Si avrebbe cioè esattamente quella situazione di ipocrisia sociale
e morale che ha spinto comunisti e socialisti a contrapporre una metafisica
secolare della Giustizia di classe all’ipocrita metafisica del Bene, coperta viscidamente dal falso cristianesimo, dei
sacerdoti e dei falsi universalisti della società classista capitalistica. Ma
come al solito con l’acqua sporca (uso moralistico e classista del Bene e
metafisica ipocrita del Bene) è stato buttato via anche il bambino (la metafisica
del Bene in generale).
Al rovescio, ogni tentativo di
proporre un’alternativa strutturale solidale al capitalismo (società socialiste
e comuniste) private di una metafisica sociale del Bene è destinato ad essere
fagocitato all’interno delle stesse categorie concettuali proprie del
liberalismo (ben adatte invece al
capitalismo), ed a scontare un'eguale scissione tra piano personale e piano
sociale, piano economico (egualitario e quindi necessariamente ispirato ad un
criterio forte di Bene, che lo si ammetta o no) e piano non economico.
Bene e Giustizia in verità si
dovrebbero fondere in un unico concetto sintetico, impedendo contemporaneamente
sia le fughe sociologiche e deterministiche (che temono il Bene come paravento
idealista interclassista), sia le fughe moralistiche e de-strutturate (che
concepiscono la Giustizia in termini interni alle strutture sistemiche.
D’altro canto il Bene senza
Giustizia diventa moralismo consolatorio e la Giustizia senza Bene diviene una
pura pratica di equa distribuzione e di equa corrispondenza tra dare e avere.
Va detto comunque che in termini puramente logici il Bene
precede la stessa Giustizia che da esso scaturisce ed in esso si struttura. La
stessa possibilità di pensare la Giustizia ci è data dal discernimento tra Bene
e Male. In questo senso un concetto di Bene inteso correttamente ed
esaustivamente dovrebbe includere in sé il concetto di Giustizia ed entrambi
dovrebbero essere la base ideale per un universalismo sostanziale.
La Metafisica del Bene e il pensiero di Marx
Il rifiuto (implicito) di una metafisica del Bene nel
pensiero di Marx ha probabilmente due origini: la prima è stata già tracciata
nei paragrafi precedenti e concerne il problema del rapporto tra
Giustizia-Uguaglianza e Bene. Si tratta del fatto che il Bene senza una
contestuale analisi strutturale della società, si trasforma in un concetto
parziale e moralistico al servizio, spesso e volentieri degli interessi della classe dominante. Il rifiuto di tale categoria come riferimento ontologico è quindi da
questo punto di vista fin troppo spiegabile e storicamente sensato. Tuttavia, come già detto, l'errore
è rinunciare alla categoria in sé per colpa del suo evidente uso moralistico e
classista degenerato.
Vi è però un secondo problema,
forse più importante e decisivo. Si tratta dell'essenza stessa del sistema
filosofico di Marx all'interno del quale non vi è spazio per una concezione
sistematica del rapporto tra individuo e collettività. E' un problema enorme al
quale in questa sede si accennerà soltanto.
Nel sistema marxiano, interpretato
globalmente, non vi è spazio per una concezione del rapporto tra individuo e
comunità fondata sulla distinzione e insieme la reciproca interdipendenza e
unità tra persona e comunità, tra singolo e forze sistemiche (distinti, ma
interconnessi). Questo perché l'immensa (e insuperabile) teoria strutturale dei
modi di produzione concepisce (giustamente!!) la persona come maschera sociale, e
(in quella sede) fa benissimo a farlo per non scadere in spiegazioni
moralistiche dei processi sociali, cogliendoli nello loro oggettività (in
questo sta la grandezza inestimabile dell’analisi dell’economista-filosofo di
Treviri).
Tuttavia Marx non lega a tale insuperabile
teoria strutturale, una autonoma teoria filosofica della natura umana e della
persona (unificando poi il tutto in un’unica teoria filosofica complessiva), ma
subordina quest'ultima alle stesse conclusioni “strutturalistiche” tracciate
nella teoria strutturale dei modi di produzione. Ovvero propone una concezione
dell'Uomo in termini integralmente storicistici (e quindi nichilistici).
Tale forma di determinismo è
alla base di una proposizione del comunismo in termini integralmente economici
come semplice rovesciamento del capitalismo, seguito dallo spontaneo
instaurarsi di libere associazioni di produttori, senza Stato, senza potere - la
dittatura del proletariato è una fase temporanea inter-modale - (che non sia la
mera amministrazione delle cose), senza intermediazioni a carattere etico e
strutturale. Nel comunismo realizzato, non solo lo Stato, ma la Politica, il
Diritto, la Filosofia sono destinate a dissolversi nella realizzazione della
definitiva riconciliazione dell'Uomo con sé stesso e con la Natura. Si tratta
di un'utopia economica e, paradossalmente intimistica e individualistica (come
rovesciamento di un iniziale approccio iper-sociale), in cui la mediazione
strutturale di tipo sociale e politico può sparire per la definitiva
riconciliazione dell'individuo con la società.
E'chiaro che, entro le
coordinate di un siffatto comunismo, lo spazio per qualsivoglia metafisica del
Bene sociale e personale non può esservi, poiché non vi sarebbe a priori alcuna
necessità di una metafisica strutturale che elevi l'idea di Bene a riferimento
sistemico. Il Bene nel comunismo marxiano non ha bisogno di strutturazione,
poiché è acquisizione naturale di uomini liberi cooperanti.
Paradossalmente, da questo punto di vista (e solo da questo
punto di vista) siamo di fronte ad una concezione non troppo dissimile (seppur
opposta nei punti di partenza) dalla concezione espressa da un certo
cristianesimo ultra-personalistico (da distinguere dal cattolicesimo sociale)
che ignora (o meglio ignora selettivamente) le forme sociali nella loro
sostanza etica totale, e non troppo dissimile dalla concezione dello stesso liberalismo.
Nel pensiero di Marx la persona
si dissolve nelle forme sociali del capitalismo, mentre le forme sociali si
riconciliano totalmente, annullandosi (ovvero destrutturandosi e perdendo di
consistenza sistemica) con la persona nel comunismo realizzato, che è infatti
il rovesciamento puro del capitalismo e la soluzione finale della
contraddizione tra individuo e società. Pertanto non v'è spazio per un rapporto
dialettico e complesso tra individuo e comunità. Si passa cioè
dall’assorbimento della persona nelle strutture sociali (capitalismo) alla sua
emancipazione nella liberazione da queste ultime (comunismo realizzato).
Nel cattolicesimo “ultra-personalista”
(selettivamente), così come nel liberalismo (integralmente), le forme sociali
sono invece a priori separate e spogliate di sostanza etica ed è solo la
persona (nei rapporti con l’altro) o l’individuo (assolutizzato) ad essere
titolare della moralità (che fa tutt'uno con l'eticità). Anche in questo caso
non vi è spazio per un rapporto etico dialettico tra strutture sociali (dotate
esse stesse di sostanza etica propria e strutturale) e persona (l'elemento
morale fondamentale). Non vi è spazio cioè per una Verità sociale e personale insieme distinta e unificata.
Pur partendo da opposti punti di
partenza il pensiero di Marx, il liberalismo e il cattolicesimo
ultra-personalista, condividono l'impossibilità di definire un rapporto
dialettico di interdipendenza tra individuo e comunità. Proprio per questa ragione condividono l'impossibilità di fare
propria una metafisica strutturata del Bene insieme sociale e personale. Il
liberalismo non può per definizione avere una metafisica del Bene, poiché è
fondato su un concetto astratto di tipo relativistico, ovvero quello di Libertà
assoluta. Il cattolicesimo politico, nelle versioni ultra-personalistiche
integrate di fatto nel paradigma liberale, propone una metafisica del Bene
personale scissa però dalle dinamiche sociali (considerate solo selettivamente
per ciò che concerne i cosiddetti temi etici - aborto, eutanasia, sessualità etc).
Il pensiero di Marx rinuncia di fatto ad una
metafisica del Bene per aver sottomesso l'intero sistema filosofico alla logica
della teoria strutturale dei modi di produzione, isolando la persona ad ente
morale insieme inglobato nelle e separato dalle strutture sociali, senza
possibilità di un’unità nella distinzione
tra persona e società e quindi di una comunicazione costante tra il piano etico
personale e sociale-strutturale. L’aspetto critico del pensiero di Marx non è
tanto un presunto schiacciamento della persona e dell’Uomo nel mostro economicistico
della società collettivizzata e anonima (critica totalmente superficiale e poco
incisiva condivisa dai liberali e da buona parte dei cattolici); l’aspetto
critico è, al contrario, la mancata dialettizzazione tra sfera personale e
sfera sociale dovuta, non ad un eccesso di collettivismo de-individualizzante,
quanto, all’opposto, ad un salto nel vuoto dall’individuo alla totalità
universale, ovvero ad una personalizzazione dell’universale senza mediazioni (o
se si preferisce ad un’universalizzazione del personale).
Paradossalmente, come visto, si tratta dello
stesso identico vizio filosofico dei critici radicali del marxismo, liberali e
cattolici ultra-personalisti. Mentre
però questi ultimi neutralizzano a priori l’eticità delle strutture sociali (e
quindi non hanno alcuna intenzione di modificarle - di qui la loro totale
adesione al capitalismo-) il pensiero di Marx invece (e qui ovviamente sta la
gigantesca differenza) ne esalta il carattere condizionante e determinante (in
negativo), e ne auspica pertanto la neutralizzazione e la destrutturazione
finale, che potrà avvenire soltanto nella liberazione sostanziale, quella del
comunismo realizzato.
Dal momento però che le
strutture sociali non scompariranno mai in quanto strutture condizionanti
(poiché permanenti e parti integranti
del rapporto contraddittorio e complesso tra Uomo e società), l’unica
possibilità (scartando a priori la ricaduta nelle categorie sociali e
istituzionali capitalistiche, per quanto socialdemocratiche possano
essere) è far si che esse siano buone
secondo la natura Umana e i Bisogni umani. Buone in quanto strutture sociali sistematizzate e portatrici di eticità sociale e
comunitaria (materiale e ideale) che si propaga verso le stesse persone
unificando (nella distinzione e nella reciproca interazione infinita) etica
sociale e moralità personale, sfuggendo in tal modo lo spettro del moralismo
sociale e insieme del socialismo de-eticizzato. Strutture sociali, infine, che siano buone senza che tale bontà diventi una soluzione messianica e secolare del male umano. Una bontà misurata, quindi, che non travalichi, affondandolo, lo spazio della singola persona, ma lo contamini e lo guidi.
Alla luce di queste
considerazioni si può dire che, soltanto l'innesto di una metafisica del Bene e
della Verità, sociale e insieme personale, all'interno dello strutturalismo
marxiano (ovvero all’interno dell’irrinunciabile comprensione della centralità
delle forze sistemiche materiali e non), può fungere da terreno ideale per un
pensiero politico di opposizione radicale alle dinamiche capitalistiche nonché
per un universalismo forte di tipo sostanziale.
La Metafisica del Bene e il comunismo storico
novecentesco
Il comunismo storico novecentesco (da tenere ben distinto
dal pensiero di Marx), così come tutte le società che hanno posto come
principio irrinunciabile un dominio e un controllo politico forte sui
meccanismi distruttivi del sistema di sfruttamento e concorrenza e sulla
dissoluzione dell’anarchia sociale, ha implicitamente fatto ricorso ad una
metafisica sociale del Bene, inconsapevolmente o meno che fosse. E, al di là
della giustissima critica delle invadenze e delle gravi illiberalità commesse,
ha fatto benissimo a servirsene (anche se per questa ragione ha dovuto sorbirsi
le malintese critiche libertarie confusionarie) poiché una metafisica,
quand’anche malintesa, del Bene sociale e dell’equilibrio, è pur sempre
superiore all’apologia del nulla e dell’abolizionismo sociale caotico (che
stanno invece benissimo con il capitalismo, ed è per questo che, anche quando
assumo i panni dell'anticapitalismo, sono ampiamente tollerati dagli apparati
politici e mediatici di controllo delle società occidentali)
La mancata ammissione di ciò che
è invece ovvio (ovvero che il Comunismo è possibile soltanto alla luce della
centralità del criterio di Bene e di una metafisica del Bene), ha portato,
nelle società del comunismo storico novecentesco a due ordini di conseguenze:
da un lato l'assunzione di inutili ed
odiose posizioni quali l’ateismo di Stato o le crociate anti-religiose
(compensate in parte e fortunatamente da un certo pragmatismo tradizionalistico
successivo, come nel caso dello stesso stalinismo); da un altro lato
all'incapacità nel saper limitare le invadenze impositive del sistema politico
collettivo, paradossalmente proprio in nome di un malinteso ed iper-esteso
criterio di Bene secolarizzato e nascosto sotto il nome di Giustizia
proletaria.
L’eccesso dispotico del
socialismo reale, in questa chiave di lettura, non è stato il frutto di una
concezione politica assolutistica veritativa esplicita (idea questa condivisa
dall’ultra-sinistra libertaria e dai liberali e neo-liberali); è stato, al
contrario, il frutto della mancata ammissione esplicita di riferimento ad una
metafisica sociale complessiva, della sua contestuale copertura con una
metafisica “materiale” parziale della Giustizia (apparentemente oggettiva e
naturale) e la conseguente incapacità di limitare le stesse pretese della
Metafisica sociale di cui di fatto si faceva (correttamente) uso.
D’altro canto la non ammissione
esplicita del ricorso ad una metafisica del Bene (e la conseguente mancata
riflessione moderata e “democratica” sul concetto di Bene) conduce
necessariamente a due strade senza ritorno: o quella del riassorbimento entro i
sistemi e le categorie capitalistiche
(per perdita di vigore etico e morale) o
quella della paradossale ipostatizzazione della stessa metafisica del Bene
(mascherata nominalmente da metafisica della Giustizia) e di invadenza nella
vita delle persone (poiché un concetto che non sa di esistere e non ammette di
esistere non può neanche riflettere su di sé e, per definizione, si manifesterà
di fatto in maniera parossistica ed estrema). Entrambe le strade sono
accomunate dalla perdita del rapporto di distinzione e insieme reciproca
influenza della sfera personale e della sfera comune e sociale. In un caso vi è
un Bene gigantesco e iper-esteso (che per di più rifiuta di definirsi tale e si
maschera di Giustizia materiale pura) che invade le due sfere soggiogandole.
Nell’altro caso, il peggiore, (quello del ritorno alle categorie del
capitalismo) vi sono due possibili esiti specifici: o il Bene è relegato (liberalismo condito da ipocrisie
religiose e morali) alla dimensione personale mentre si violenta, neutralizzandola,
quella sociale; oppure (liberalismo puro) il Bene semplicemente scompare. Che
dire? Meglio le ipocrisie religiose e moralistiche del nulla, ma in tutti i
casi pur sempre di un ritorno al relativismo e al nichilismo si tratta. Che sia
un'ipocrisia nichilistica o un nulla nichilistico in fondo cambia poco.
Bene e verità come concetti rivoluzionari alla base di un
universalismo sostanziale
Vediamo, a questo punto, in che senso possiamo considerare
Bene e Verità i due concetti alla base di un universalismo sostanziale.
L’esistenza della Verità è un presupposto della stessa
possibilità di definire il Bene. Il Bene, d’altro canto è il principio primo
che consente di risalire all’esistenza stessa della Verità come parametro
universale.
Bene e Verità, così concatenati, sono i due cardini di un
possibile universalismo sostanziale. In quanto tali sono due concetti
rivoluzionari che sconvolgono l’assetto delle relazioni capitalistiche fondate
sul relativismo e l’universalismo astratto.
Ma come e perché il criterio di
Bene (a sua volta costituito
sull’esistenza di una Verità ontologica sull’essere umano e la sua natura) può
fungere realmente da base per un universalismo sostanziale?
Il concetto di libertà assoluta
(con i suoi corollari concetti di democrazia,
diritti umani etc etc) è di per sé nichilistico, anche quando si traveste da
valore universale. Questo perché la libertà in sé è il nulla ed è il regno del
relativo. Una volta posta la libertà infatti ogni istanza relazionale umana è
relativizzata e ridotta ad opinione. La libertà in sé non include alcun
principio sostanziale. La sua assolutezza significa esattamente la professione
di impossibilità di conoscenza del bene per l'Uomo in generale e la sua
riduzione a parametro relativo variabile da individuo a individuo. Per questa
stessa ragione il criterio di libertà assoluta preclude un confronto tra
culture e tra civiltà.. Non scavando nella sostanza dei rapporti umani e
sociali, non può porsi come parametro per il confronto universale di diverse forme
culturali.
Il criterio di Libertà assoluta
è dunque un criterio puramente relativistico.
I criterio di Giustizia degli sfruttati e di Uguaglianza
sostanziale sono invece criteri sostanziali (dunque non relativistici), ma,
come visto, presi di per sé hanno carattere parziale e incompleto poiché
costruiti su basi puramente sociologiche ed economiche.
Diversamente il criterio di Bene
per l'Uomo in relazione alle sue caratteristiche e suoi ai bisogni universali
può porsi come criterio per una lenta e faticosa universalizzazione
sostanziale. E lo può fare solo una volta che è espresso come sintesi unitaria
di Bene – Giustizia - Uguaglianza, una volta cioé che abbia fatto i conti con
il carattere classista della società capitalistica (accogliendo la logica della
teoria strutturalistica marxiana), disvelando la natura strumentale ed astratta
dell’universalismo liberale e borghese. In quel momento e solo in quel momento
si può porre come principio universale che superi, demolendola, l’astrattezza
delle relazioni sociali apparenti (universalismo borghese e universalismo
moralistico) e superi altresì, conservandoli ed includendoli in sé, il
sociologismo dell’universalismo della Giustizia di classe e il carattere
economico dell’Uguaglianza sostanziale.
E’ bene, a questo punto,
specificare una cosa. Bene e Libertà assoluta si pongono in totale antitesi non
in quanto valori (la libertà è e resta comunque un valore fondamentale), ma in
quanto principi guida di orientamento per un pensiero universale. Il criterio
guida di libertà assoluta è un' esplicita asserzione di sospensione del
giudizio sull'Uomo in generale, ovvero di relativismo (mascherato da
universalismo), poiché rimette la stessa definizione di bisogni umani e di
realizzazione umana al totale arbitrio dell'opinione individuale. Al contrario
porre il criterio del Bene come criterio preminente significa professare la
conoscibilità generale di tali bisogni e di tale realizzazione.
Naturalmente la libertà e il
diritto come principi non perdono di sostanza e forza espressiva (e universale)
una volta innestati nel criterio più generale del Bene. Al contrario essi
acquistano concretezza e perdono quel carattere assoluto che finisce per
rivoltarsi contro sé stessi. D’altronde è facile osservare che la libertà
assoluta finisce sempre per negare la libertà così come il diritto assoluto
finisce per negare il diritto in quanto contraltare logico del dovere e della
partecipazione attiva. Libertà e diritto entro la categoria di Bene, invece,
diventano essi stessi concetti portanti di qualunque pratica politica e guai a
considerarli zimbelli borghesi privi di consistenza (come spesso ha fatto
erroneamente il comunismo storico
novecentesco)! Si costituiscono, anzi, nel loro carattere sostanziale come
concetti portatori di possibili principi universali di tipo sostanziale.
Vediamo di spiegare meglio, ora,
in che senso e in che misura il Bene è conoscibile e universalizzabile. Si
tratta di una conoscibilità che può partire da asserzioni molto generali per
poi scendere poco a poco nel particolare secondo un processo di continua e
prudente specificazione e cauto avvicinamento alla realtà più immediata.
Vediamo come tale “metodo” può essere meglio esplicitato.
Se parto, ad esempio, dal
presupposto minimo che l' uomo è: “un essere sociale e comunitario che non
realizza sé stesso fuori dalla comunità in totale isolamento”, posso giudicare
come bene l'inclusione e come male l'esclusione delle persone all'interno dei
rapporti sociali e porre questa come possibile verità universale. Si tratta di
un primo passo verso una verità minimalista (che va oltre le verità
biologiche), ma che consente iniziali confronti e avvicinamenti tra civiltà che
intendono e formalizzano la sostanza dell'inclusione in maniera anche
estremamente diversa. Ad un livello di questo tipo naturalmente mi troverei ad
individuare il criterio di inclusione in fenomeni tra di loro lontanissimi,
dalla tribù solidaristica e inclusiva che pratica comportamenti cannibaleschi
con tribù rivali, alla teocrazia medioevale, fino alla socialdemocrazia svedese
(ma non potrei inizialmente che accontentarmi di questo, per non scivolare fin
da subito nel pericolo dell'universalismo astratto e frettoloso). Se poi alla
prima definizione aggiungessi che: “l'uomo ha una dimensione sociale e personale.
Dimensioni che sono distinte, ma non separate e continuamente interconnesse” e
che “pertanto la vita sociale, così come la vita personale, ha una sostanza
etica che se negata conduce l'uomo alla sofferenza e alla scissione”, e ponessi
questa come seconda possibile verità universale sull’Uomo, avrò un secondo
punto forte (ancora minimo) per confrontare le diverse formalizzazioni concrete
con cui le diverse civiltà realizzano o non realizzano tale sostanza della
natura umana.
E così proseguendo verso
definizione sempre meno generali universalizzabili che possono assurgere al
piano di verità generali sull'uomo, come ad esempio: “l’uomo è un essere
spirituale che deve dotare di senso l’esistenza e che è portato per natura a
porsi il problema della propria fine”; o ancora “l’uomo ha una naturale spinta
realizzativa di tipo solidale, ma pur tuttavia presenta spinte contrastanti di
tipo egoistico che possono comunque essere messe in secondo piano”; o ancora
“l’uomo ha bisogno di dotare di senso il proprio lavoro alla luce di risultati
visibili e socialmente condivisi”, o ancora: “la solidarietà per essere interiorizzata e goduta, deve
avere un fondamento personale cosciente ed un fondamento sistemico
strutturale”, etc etc....fino ad arrivare ad asserzioni specifiche forti come
“L'arricchimento sulle spalle altrui è cattivo per chi lo subisce, ma anche per
chi lo pratica”; “il lavoro è un diritto e un dovere”; “la concorrenza come
principio sociale preminente è deleterio e disumanizzante”; “relazioni produttive
cooperative sono buone”; “il sistema sanitario pubblico, gratuito e universale
é buono” etc. etc.
E' chiaro che più specificherò le asserzioni più sarà
difficile che esse siano portatrici di verità generali. Più invece le
generalizzerò più l'universalismo sostanziale diverrà di tipo debole.
E' senz'altro estremamente
difficile trovare un sano equilibrio tra esigenze veritative ed
universalistiche forti e rischio di perdita di forza generale delle asserzioni
potenzialmente universali (ovvero di arbitrio unilaterale della stessa verità).
Senz'altro si tratta di un problema enorme! Forse del più grande problema della
filosofia! Tuttavia ciò che conta è l'accettazione della logica di fondo, della
tendenza. L'ammissione cioè della possibilità di un universalismo sostanziale
basato su una nozione di Bene a sua volta dipendente da asserzioni Vere sui
bisogni umani e sulla sostanza della realizzazione della vita dell'Uomo.
Se esiste il Bene in senso
generale, esso esiste come Verità. Se esiste la Verità, allora esiste il Bene
come principio universalizzabile.
Sovranità comunitaria e universalismo. L'universalismo
sostanziale come faticosa, ma necessaria soluzione dell'apparente antinomia.
Comunitarismo universale come forma di universalismo sostanziale.
L’universalismo sostanziale si pone in contrasto con il
relativismo e l’universalismo astratto.
Si può fondare saldamente sulla coppia concettuale
(reciprocamente dipendente) di Verità e Bene.
Proprio in quanto sostanziale l’universalismo vero aborrisce
ogni universalizzazione della forma, delle procedure e tanto il paradosso
dell’“universalizzazione del relativismo”.
L’universalismo sostanziale getta un ponte tra individuo e
comunità; tra comunità e universalità ed infine, solo grazie a tale mediazione,
tra individuo ed universalità (poiché l’individuo senza comunità è il nulla
astratto). L’universalismo sostanziale non sopporta la furia del dileguare
individualistica e abolizionistica dell’universalismo astratto poiché accetta
l’intermediazione delle comunità, dei gruppi e delle collettività, pur negando
loro l’isolamento in cui le relega il relativismo.
L’universalismo sostanziale in
tal senso è la base per un Comunitarismo universale che è a sua volta la base
filosofica di un comunismo e di un anticapitalismo radicale pensati in termini
di rifiuto sia delle astrattezze relativistiche liberal-democratiche, sia dei
riduzionismi sociologici ed economici di un determinato comunismo, in nome di
un’unità inscindibile tra piano materiale e piano ideale e di un’unità nella
distinzione tra individuo e comunità e tra comunità ed universale.
Il problema della sovranità
dell’individuo e della comunità rispetto all’universalità rimane ovviamente un
problema gigantesco. Da un lato infatti si riconosce la sovranità dell’individuo
e della comunità rispetto ai giudizi astratti e perentori
pseudo-universalistici che vorrebbero imporre a tutte le collettività, a tutti
gli Stati e a tutti gli individui del mondo un unico orizzonte incubesco basato
sull’uniformazione coatta dell’esistenza sulla base di principi astratti.
D’altro canto si riconosce l’universalità sostanziale del genere umano e si
rifiuta il giustificazionismo relativistico, anche quello comunitario delle
tradizioni e dei costumi (per cui tutto è lecito in quanto relativo,
dall’infibulazione alla scambio di prodotti finanziari derivati, dal rogo delle
vedove alla negazione del diritto alla sanità).
Una breve parentesi in proposito
merita di essere aperta. Si tratta di un problema di grande difficoltà
immediatamente connesso a queste considerazioni: ovvero il problema, oggi molto
attuale, della violazione della sovranità degli Stati in nome di principi
universalistici (diritti umani, interruzione di supposti massacri di civili,
democrazia e via dicendo). In proposito occorre saper distinguere una
situazione idealtipica dalla realtà dei rapporti di forza.
In un mondo teorico di comunità
di pari e di eguaglianza reale tra Stati, il problema dell’ingerenza andrebbe
risolto cautamente tramite la ricerca di un corretto equilibrio sostanziale tra
rispetto della sovranità e necessità di universalismo (e il problema rimarrebbe
comunque aperto e bisognerebbe rimettersi a prudenti valutazioni caso per
caso). Nel mondo reale capitalistico segnato da specifici rapporti di forza tra
Stati, gruppi, classi, ed in particolare dalla centralità della categoria di
Imperialismo (proprio una delle categorie oggi più rimosse dal dibattito
pubblico), è evidente che la Sovranità degli Stati minacciati di ingerenza
esterna dovrà necessariamente divenire principio di difesa della autonomia e
dell’indipendenza anche a costo di una parziale perdita temporanea ideale di
universalismo. Naturalmente il principio di sovranità non può comunque fondarsi
su sé stesso e diventare assoluto, pena la caduta inevitabile nel nichilismo e
nel relativismo. Per cui anche nei rapporti di forza reali, rimane importante
la valutazione caso per caso (l’intervento cubano in Angola o dell’Unione
Sovietica in Spagna, per intenderci, ha caratteristiche del tutto diverse dagli
interventi angloamericani in Iraq, Afghanistan, Libia, Serbia etc. etc.). Si
può dire comunque senza grande margine di errore che allo stato attuale il 95%
delle ingerenze (ovviamente non reciproche e volute) di uno Stato negli affari
di un altro Stato ha natura di dominio mascherata da umanitarismo. Pertanto il
principio di sovranità degli Stati, come hanno ben capito tutti i governanti di
paesi minacciati di finire sotto le bombe e l’uranio impoverito, merita la
massima attenzione e preminenza. La sua tutela in fondo (e la relativa rinuncia
ad un immediato universalismo) è essa stessa una professione indiretta di
universalismo di lungo periodo basato su criteri politici veritativi forti.
Tornando, comunque, ai termini
generali, l’unica soluzione all’apparente insolubile antinomia tra sovranità
comunitaria e universalismo è il richiamo ad una conoscenza universale di tipo
sostanziale che sappia demolire i formalismi e le procedure come false verità
che mettono falsamente in comunicazione l’individuo con l’universale saltando
arbitrariamente il passaggio tramite le collettività e le società
Conclusioni
La cultura di legittimazione del capitalismo è l’unione di
relativismo e universalismo astratto, procedurale e imperialistico. Nessuna
metafisica sostanziale può sostenere ideologicamente il capitalismo, poiché la
sua unica legittimazione è la libertà in sé e il suo unico fine astratto è il
progresso in sé. Entrambi i concetti sono l’immagine del nulla relazionale.
Pertanto la vera metafisica del capitalismo è la metafisica del nulla, difesa e
sostenuta dal relativismo filosofico e consolata e armata dall’universalismo
formalistico.
Tutti i tentativi di
conciliazione tra metafisiche sostanziali (come quelle religiose e-o
umanistiche) e il capitalismo e il liberalismo finiscono per trovarsi di fronte
ad un’insormontabile contraddizione e vengono svuotate della loro stessa
espressività, finendo per diventare dei diversivi estetici tollerati del
pensiero unico. D’altro canto tutti i tentativi di opporsi al capitalismo senza
una metafisica sostanziale finiscono invece per lottare contro i mulini al
vento (nella migliore delle ipotesi) o per concimare il terreno filosofico su
cui si fonda il capitalismo stesso (nella peggiore delle ipotesi)
Soltanto una concezione
universalistica forte e sostanziale può demolire l’impianto relativistico e
universalistico astratto dominante; e i suoi pilastri non possono che essere i
criteri di Bene e di Verità o se si preferisce di Verità e di Bene nella loro
concatenazione logica.
Lorenzo Dorato
http://www.monde-diplomatique.fr/2014/05/CHIBBER/50380
RispondiEliminal'ho letto velocemente (la versione in italiano è sul numero di maggio di le monde diplomatique) ma mi pare riprenda in parte i commenti di questo tuo post
enrico