Riprendo dopo molto tempo la scrittura in questo spazio per proporre una riflessione sulla guerra.
Traggo spunto dal ricorrere del decimo anniversario dell'aggresione anglo-americana dell'Iraq
Nel 1945 finiva in Europa e nel mondo l'apocalisse della seconda
guerra mondiale. Una guerra spaventosa che causò tra i 50 e i 60
milioni di morti di cui ben più della metà civili, un numero simile di
feriti e mutilati e arrecò impressionanti distruzioni alle città
europee, giapponesi e cinesi, facendo scomparire in pochi anni sotto le
bombe e il fuoco pezzi interi di civiltà secolari.
Barbarie
suprema dell'imperialismo, logica naturale del mostruoso conflitto su
scala sempre più ampia tra potenze capitalistiche lanciate alla
conquista della supremazia l'una sull'altra.
Alla fine
dell'apocalisse ebbe inizio per l'intera umanità un 'epoca di speranzosa
rinascita.
La convinzione che "non sarebbe più potuto accadere" si
diffuse nell'immaginario collettivo e l'ottimismo della ricostruzione e
della crescita economica del trentennio del dopoguerra diedero
l'illusione che l'apocalisse fosse ormai un fenomeno relegato ai libri
di storia e all'epoca infelice dei totalitarismi impazziti. Del resto
furono tre gli elementi che contribuirono a far sì che non scoppiassero
nuove devastanti guerre su scala mondiale tra capitalismi e tra nazioni
capitaliste e nazioni del blocco socialista: in primo luogo l'
equilibrio gepolitico e militare tra le due super-potenze USA e URSS; in
secondo luogo la potente arma di dissuasione reciproca rappresentata
dall'atomica; in terzo luogo, nel campo capitalista, l'indiscussa e
schiacciante supremazia economica e, soprattutto, militare degli USA
rispetto ai paesi europei.
Tutto ciò non impedì in ogni caso lo
scoppio di terribili guerra "periferiche" di carattere schiettamente
imperialista condotte dagli Stati Uniti per consolidare la supremazia in
aree del mondo dagli equilibri instabili: Vietnam, Corea, Angola per
citare i casi più eclatanti. E non impedì, ovviamente, il susseguirsi di
colpi di Stato, invasioni militari lampo, massacri per conto terzi,
repressioni di oppositori politic etc etc, da parte delle potenze
imperialiste (Stati Uniti in primis) contro gli Stati che
intraprendevano propri percorsi "pericolosi e devianti".
Dopo il
1991, implosa l'Unione Sovietica, l'ottimismo sulla supposta fine
dell'epoca delle micidiali guerre contemporanee si consolidò
ulterioremente nell'immaginario occidentale. La caduta del comunismo
doveva rappresentare la fine dei mostri totalitari e il mito della pax
mondiale liberal-democratica a guida statunitense divenne sempre più
consolidato. Al contrario, il crollo dell'URSS, significò esattamente
l'opposto di ciò che veniva propagandato, ovvero l'inizio di un ciclo di
guerre contro ogni paese non allineato portatore di una linea politica
autonoma non del tutto conforme con le aspirazioni dei padroni del
mondo.
Da allora la guerra smise di chiamarsi guerra per diventare
"missione di pace", "esportazione di democrazia e diritti umani",
"difesa di popoli oppressi".
Iraq 1991, Jugoslavia 1994-1999,
Afganistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, destabilizzazione della Siria in
corso. Questa la sequela di guerre contemporanee condotte sotto la
bandiera della democrazia e dei diritti umani e dei bombardamenti
intelligenti di precisione.
Il mito della guerra umanitaria è
stato affiancato dal mito della guerra veloce, fatta di attacchi mirati
ai centri del potere, bombe intelligenti, minimizzando il numero delle
vittime e portando rapidamente alle condizioni per una pace prospera e
una rapida ricostruzione. Questa duplice mitologia (fini umanitari e
danni limitati) è stata alla base della passiva o attiva accettazione
delle guerra contemporanee da parte di una forte maggioranza delle
popolazioni europee, ridotte al non pensiero dalla propaganda di guerra
costruita su menzogne, fotomontaggi, costruzioni ideologiche e
diffusione della paura.
In questo modo, l'orrore reale della
guerra, lo stesso sperimentato soltanto 70 anni fa da chi in Europa oggi
ha 70-80 anni e ha potuto raccontare in via diretta alla generazione
che ne ha oggi 40 o 50, è stato sotterrato sotto la valanga di
mistificazioni ideologiche sulla guerra giusta e, se non sana, comunque
tollerabile e giustificabile per via di fini superiori.
Le stesse
persone, i cui genitori e i cui nonni hanno vissuto l'atrocità dei
bombardamenti, dell'occupazione militare, delle privazioni fisiche,
dell'umiliazione, si sono trovate ad approvare la stessa identica
barbarie esportata in luoghi lontani ed esotici, forse troppo estranei
per poter provare empatia e vergogna. L' agghiacchiante entusiasmo delle
masse, il 9 Maggio 1936, all'annuncio della realizzazione dell 'impero,
dopo l'occupazione dell'Etiopia e il 10 Giugno 1940, all'annuncio
dell'entrata nella seconda guerra mondiale dell'Italia, tanto esecrato
(e giustamente) da chi, a posteriori, capì cosa significava una guerra
sulla propria terra e sulla propria testa, è lo stesso entusiasmo
"democratico" (e più vigliaccio, visto che la partita oggi si realizza
sempre in trasferta) di chi nel 1999 applaudiva i bombardamenti su
Belgrado, di chi applaudiva l'invasione dell'Afghanistn nel 2001, i
missili su Tripoli nel 2011 e le operazioni di guerra israeliane a Gaza
nel 2009. Mistificazione, inganno mediatico, raggiro di coscienze
pulite, disinformazione televisiva? Sicuramente le ragioni
dell'accettazione della retorica della guerra moderna "giusta" sono
molte, ma non dobbiamo credere che il grado di "devianza" e
"manipolazione criminale" sia così diverso da quello delle masse urlanti
del 9 Maggio 1936 e del 10 Giugno 1940. Cambia la forma, cambia
l'ideologia, cambia la retorica, ma la sostanza e la responsabilità
ultima rimane la stessa.
Uno spiraglio di presa di coscienza sugli
orrori della guerra si verificò nel 2003 con la brutale aggressione
anglo-americana dell' Iraq. Ma, quell'apparente sprazzo di lucidità,
altro non fu che lo specchio del posizionamento specifico delle forze
progressiste europee e della Chiesa cattolica, in quella che venne
propagandata come una guerra "illegale" e "fuori misura", dunque da
esecrare, in contrapposizione con le guerra sante benedette dall'ONU,
avallate e dalle amministrazioni democratiche USA e dai corrispondenti
vassalli europei. La tragica fragilità e strumentalità del movimento di
opposizione alla guerra in Iraq nel 2003, che portò in tutte le piazze
europee milioni di persone, si rivelò in maniera lampante nel 2011 con
la vigliacca aggressione alla Libia, in cui l'Italia, contro i suoi
stessi interessi capitalistici, si prestò vergognosamente alla cessione
delle fondamentali basi militari che permisero il facile bombordamento
del suolo libico. Un'aggressione appoggiata con il massimo entusiasmo da
(quasi) tutta la compagine culturale di centro-sinistra (con il
presidente Napolitano in testa). Alle manifestazioni contro la guerra,
in quei terribili giorni, era difficile contare più di un centinaio di
persone. Dal milione in piazza contro la guerra di Bush alle poche
centinaia in piazza contro il massacro della Libia si può dire che il
tracollo sia stato quanto meno grottesco.
La semplice spiegazione
di quella tragica regressione va trovata nella totale ristrettezza di
un'autentica concezione antimperialista e nell'egemonia massiccia di
posizioni pacifiste (autentiche e non ambigue) o pacifinte (strumentali
al diritto del più forte e frutto di semplice manipolazione ideologica
da parte del potere). Nel 2003 la bandiera più diffusa nelle
manifestazioni non era quella dell'Iraq (paese aggredito brutalmente da
una coalizione di assassini onnipotenti), ma quella della pace
accompagnata spesso dagli slogan "né Bush, né Saddam". Insomma
posizioni ambigue facilmente risucchiabili, al momento opportuno, dalla
retorica dei diritti umani e della guerra giusta finalizzata a portare
la pace, come si è poi evinto chiaramente dall'assordante silenzio
durante l'aggressione alla Libia.
La ricostruzione di un solido
movimento contro le guerre imperialiste deve ripartire proprio dalla
presa d'atto dell'esistenza di aggressori e di aggrediti. Presa d'atto
che deve sapere andare al di là delle valutazioni di politica interna su
un paese che sta subendo un'aggressione.
Ma tale ricostruzione,
in maniera se vogliamo più semplice e diretta, deve anche ripartire
dalla coscienza di cosa è realmente la guerra, dell'orrore cui sempre e
comunque conduce. Ripartire dalla coscienza della falsità dei miti della
guerra senza danni collaterali, delle bombe intelligenti. Ripartire da
una riflessione su cosa significa ritrovarsi il paese invaso da truppe
straniere di occupazione, bombardato dal cielo, immerso nel caos di
un'anarchia dove vige la legge della giungla, distrutto nella dignità,
nell'ordine relazionale e sociale, nell'integrità territoriale e morale.
Basterebbe del resto parlare con i nostri nonni per ravvivare una
memoria storica che ci riguarda molto da vicino e che non può morire.
Perché se muore quella memoria, muore la possibilità di discernere,
giudicare e prendere posizione.
Il 20 Marzo, due giorni fa, è
ricorso l'anniversario decennale dell'invasione anglo-americana
dell'Iraq (con il criminale supporto ex-post dell'Italia). Le cifre sui
morti di questa atroce guerra che ha letteralmente annientato un paese
precedentemente prospero (soprattutto in termini relativi all'area
mediorientale) sono difficili da stimare. Diversi studi azzardano cifre
estremamente differenziate (da un minimo di 30.000 ad un massimo di 1
milione di morti).In ogni caso un numero impressionante di vittime, di
feriti e mutilati, un paese distrutto, tesori d'arte cancellati dalla
faccia della terra, biblioteche incendiate, segni di civiltà millenaria
scomparsi, bimbi malati e deformati perché nati e cresciuti tra fosforo e
uranio. Proprio la stessa identica apocalisse che molti pensavano
relegata ai libri di storia e all'epoca dei cosiddetti "totalitarismi".
Per
ravvivare la memoria su un conflitto spesso dimenticato dai media, che
continua a causare vittime ogni giorno, avendo aperto le porte di
un'interminabile guerra civile che sta disintegrando il paese, riporto
un interessante articolo tratto dal sito osservatorioiraq.it
http://www.osservatorioiraq.it/iraq-il-conflitto-pi%C3%B9-sanguinoso-del-secolo
di Francesca Manfroni
Durante
l’occupazione straniera dell’Iraq, ed esattamente nel periodo
2003-2011, sono stati uccisi 116.903 civili contro 4.804 militari
stranieri, soprattutto americani.
Le cifre dimostrano che
la Seconda Guerra del Golfo potrebbe rivelarsi il più sanguinoso
conflitto del secolo e uno dei peggiori per vittime non militari.
"La
proporzione di 24 a 1 è la più alta mai registrata", confessa Barry
Levy, medico e professore presso la Tufts University (USA) e co-autore
dello studio apparso su Lancet.
Per
stilare il numero di civili iracheni uccisi durante gli 8 anni su cui
si sofferma il rapporto, i ricercatori hanno fatto riferimento anche
alle statistiche dell'Iraq Body Count (IBC), un'iniziativa indipendente nata per far luce sulle conseguenze delle violenze contro la popolazione civile.
Un
orrore che potrebbe assumere contorni ancor più drammatici a detta di
Mike Spagat, ricercatore presso l'Università di Londra, secondo il quale
i civili uccisi per ogni vittima militare potrebbero arrivare a 30,
incrociando i dati IBC con le rivelazioni fatte da Wikileaks nel 2010.
Ed è
lo stesso Iraq Body Count a pubblicare il conteggio delle vittime di
questo mese, fino al 21 marzo 2013: 306, di cui 10 nel giorno del decimo
anniversario dall’invasione americana, con il bilancio dell’ondata di
attentati che hanno insaguinato il paese martedì che si è fermato a
quota 79 morti.
Solo durante il 2012, l'IBC ha registrato
il decesso di oltre 4.500 persone, un record negativo che vede il numero
delle vittime crescere per la prima volta dal 2009.
Il
paese resta quindi intrappolato in uno stato di guerra a bassa
intensità, dove alla violenza quotidiana si sommano degli attacchi
'occasionali' condotti su vasta scala e mirati a uccidere più persone in
un colpo solo, proprio come è accaduto il 19 marzo.
Gran parte
dello studio è poi dedicato a quello che resta dopo la Seconda Guerra
del Golfo: oggi in Iraq si assiste a un deciso aumento delle malattie
mentali, a cui si somma la strage silenziosa dei bambini
ben documentata dai tanti studi scientifici pubblicati in questi ultimi
anni, che paragonano i tassi di malformazione dei neonati di Falluja a
quelli di Hiroshima e Nagasaki.
La ricerca sottolinea inoltre gli effetti devastanti
sul flusso di profughi (milioni) e sull'elevato livello di
contaminazione registrato in alcune aree del paese legato all'uso
dell’uranio impoverito.
Abbandonati dal loro governo e
dalla comunità internazionale, a partire dal 2003 almeno un iracheno su
cinque ha lasciato la propria abitazione per cercare riparo altrove,
dentro e fuori dai propri confini.
Secondo l'Organizzazione
internazionale per le migrazioni sarebbero meno del 10% quelli che hanno
deciso di rientrare, e spesso coloro che l'hanno fatto non hanno
ritrovato la propria casa. Gli sfollati interni sono costretti a vivere
in sistemazioni abusive senza accesso all'acqua pulita e ai servizi
igienici.
E ancora: nell'Iraq del 2013 solo il 38% della
popolazione ha un'occupazione lavorativa contro un 22,5% di persone che
sopravvive con appena 2 dollari al giorno.
Dati
altrettanto sconfortanti riguardano i servizi fondamentali: a fronte
di sole sei ore di elettricità intermittente al giorno, un iracheno su
quattro non ha accesso all'acqua potabile.
Attualmente,
un quinto della popolazione fra i 10 e i 49 anni è analfabeta, mentre
negli anni Ottanta l'Iraq vantava una posizione di primato nella regione
per l’alto livello di istruzione dei suoi cittadini.
Stando
alle stime del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, negli
ultimi dieci anni 4 milioni e mezzo di bambini sarebbero rimasti orfani e
una donna su dieci vedova.
Infine, sono circa 600 mila i
minori che vivono in strada senza accesso ai servizi essenziali come il
cibo e la casa, e 700 sono invece ospitati nei pochi orfanatrofi del
paese.
Lorenzo Dorato
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